lunedì 9 agosto 2010

"Fuori Gioco" di Salvatore Scalia (Venezia, Marsilio, 2009). Recensione di Franco Pappalardo La Rosa

     In Fuori gioco di Salvatore Scalia (Venezia, Marsilio, 2009, pp. 128, euro 12), il protagonista, Paolo Malerba, è colto e rappresentato in tre fasi cruciali della propria vicenda umana, corrispondenti alle tre parti in cui il romanzo è suddiviso. La prima, intitolata La vigilia e datata Novembre 1969, è riferita al periodo nel quale, giocando nella squadra del proprio paese e contando su un indubbio talento pedatorio, il ragazzo s'immagina un avvenire di calciatore professionista in una delle squadre del massimo campionato nazionale. La seconda, intitolata Sull'Etna e datata Maggio 1989, appartiene ad un tempo che ha già segnato il naufragio delle illusioni del protagonista e lo ha costretto a prendere atto della cruda verità della vita. La terza, infine, coincide con il tempo del crollo nervoso-mentale dell'uomo che, ancor giovane, si è dovuto rendere conto d'avere sprecato i migliori anni della propria esistenza ad inseguire prima la vanità dei sogni e poi quella delle promesse del potente di turno, e intanto ha visto franare intorno a sé ogni rapporto affettivo e sentimentale. Narrata nella stringata forma della notazione diaristica redatta dal fratello minore del protagonista, questa parte s'intitola (appunto!) Il diario e abbraccia un arco di tempo che va dalla fine del 1974 al 12 ottobre 2001.

     Ad apertura, il romanzo presenta l'adolescente Paolo che raggiunge in bici il campo sportivo. Ci va non solo per giocare, ma perché lì, in quello "spazio sottratto al caos del mondo", sa di trovare un proprio equilibrio psicofisico. Anche se il sogno che egli accarezza non è suo soltanto, ma appartiene pure - e forse principalmente - al padre Tino: uomo fissato col calcio ("Oggi i soldi si fanno dando calci a un pallone"), che ha inculcato la sua mania al figlio maggiore, "trasformando il gioco in tormento, con allenamenti assidui, controllando la dieta, mortificando l'abilità culinaria della moglie".
     Dotato di una buona dose di relativismo morale, Tino, operaio elettricista presso il comune (e per questo soprannominato Fiat Lux), è disposto a tutto pur di aiutare il figlio: lo esorterà a divertirsi con le femmine, ma senza lasciarsi accalappiare per non rovinarsi la carriera; lo incoraggerà, fallito il miraggio del professionismo calcistico, a mettersi al servizio del politico emergente e, soprattutto, della sessualmente inquieta consorte di costui ("Se ti prendono a benvolere" - gli dirà - "sei sistemato"); lo indurrà persino, dopo che il figlio è stato cacciato dalla squadra, all'umiliazione di chiedere un lavoro al nuovo presidente della società sportiva, un ex compagno di gioco divenuto nel frattempo mafioso.

     La madre, invece, è una donna che ha dedicato la propria esistenza alla famiglia e ai figli, per la cui protezione non smette di lottare ("Se t'azzardi a farlo cantare ancora una volta ti scanno" non esiterà a minacciare il marito con un coltellaccio da cucina: era accaduto che Tino, scoperto che il figlio minore era dotato di una bella voce, aveva abbandonato alla sua sorte Paolo e si era trasformato in impresario del ragazzino, facendone l'attrazione canora a pagamento di tutti i teatrini e le feste paesane della provincia). Ma è anche una donna che, prevaricata dalla continua prepotenza del marito, finisce per essere sfiorata dal pensiero d'una vita diversa.
     All'ambiente familiare fanno da non secondarie cornici quello geografico (i suggestivi paesaggi dell'Etna, rivisitati con l'identico-incantato sguardo infantile che li aveva mitizzati) e quello, antropologico-culturale, del microuniverso di tipi umani addensati in una cittadina della provincia siciliana (le partite di calcio, il ritrovo degli amici al bar, le loro eterne chiacchiere, gli sfottò, i pettegolezzi...) tratteggiato con deciso piglio scritturale anche nei più inquietanti risvolti di costume (l'ascesa del giovane mafioso, la speculazione edilizia intorno al campo sportivo, il peso dell'appoggio della mafia nel successo elettorale del candidato locale ecc.).

     In simile contesto si consuma la storia sportiva e umana di Paolo, dal momento in cui, poco più che adolescente, viene chiamato a Milano per un provino all'Inter (provino superato brillantemente in campo, ma reso vano dal controllo medico: una piccola calcificazione polmonare priverà il ragazzo della perfetta idoneità fisica indispendabile per intraprendere la carriera di calciatore professionista), all'altro nel quale, dopo anni di militanza nella squadra cittadina, ne verrà impietosamente estromesso dal nuovo presidente; da quello della delusione conseguente al fallimento del rapporto sentimentale con Lina, la capricciosa moglie dell'ex presidente della società calcistica (riciclatosi in politico in carriera), all'ultimo, davvero drammatico, che concluderà l'avventura esistenziale del protagonista sulla scia del filosofo Empedocle.

     Certo, Paolo Malerba non possiede la coscienza d'essere figlio del relativismo morale, delle spertezze di Tino (cui apparrtiene la sequente graduatoria degli sperti: "In primis l'onorevole Drago che mangia e fa mangiare. A Catania non si muove foglia che l'ingegnere non voglia [...]. In secundis il nostro compaesano Ciccio Trecculi che quant'è fortunato lo dice la parola stessa. Nacque tinto muratore e ora è cavaliere del lavoro [...]. Terzo il barone: quand'era sindaco si è fatto approvare un piano regolatore che prevedeva lo sviluppo edilizio delle sue sciare. E' un mago che ha trasformato la lava in oro [...]. Quarto Petro 'u turcu, carusazzo del Fortino, che non sapeva fare manco la O col bicchiere, divenuto padre della patria. Quinto Padre Filippo: ha sistemato tutta la parentela e anche le amanti. Ruba a destra e a manca, ma lo assolvono sempre con la scusa che è malato..."): dell'uomo che si presenta come l'incarnazione della vuotaggine, della superficialità, della perdita di senso dei valori, sottostanti al mito del conseguimento facile e ad ogni costo del successo e della ricchezza, ormai invalso nella nostra malata società dell'apparire più che dell'essere. Da tale specola, in virtù della concezione distorta che del gioco del calcio hanno Fiat Lux, Paolo e non pochi altri che ragionano con la  medesima mentalità, Fuori gioco dilata la propria vis rappresentativa, fino a costituire una lucida e dolotante allegoria del malessere profondo che affligge la società e l'uomo d'oggi.

     Si tratta di un'allegoria, peraltro, che riflette la visione tragico-pessimistica dell'universo propria della maggiore letteratura meridionale e dove contano, in particolare, la qualità e lo spessore che rendono riconoscibile una scrittura tutta colpi di spatola, rapide pennellate e balenanti illuminazioni liriche (specie là dove essa si accentri sulla stilizzazione dei paesaggi attorno al vulcano). Una scrittura organizzata a "stazioni", con una sintassi paratattica e rare subordinate. Alla quale dà colore, non solo decorativo ma anche connotativo, l'innesto della parlata dialettale etnea spesso magistralmente tradotta in lingua ("si meritava la testa scippata",
"non scòncica femmine", "sparò una bella minchiata", "che ti possa cadere la lingua fitusa", "una santarellina, del tipo non mi toccare che mi scòzzolo..."), i cui moduli stilistico-espressivi - la parodia, la satira di costume e un sottile ghigno ironico teso al grottesco - richiamano, tanto per la similarità del catalogo lessematico impiegato quanto per la struttura del periodare - un po' il Brancati de Gli anni perduti.

                                                                Franco PAPPALARDO LA ROSA

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