giovedì 2 dicembre 2010

Franco Pappalardo La Rosa, recensione (pubblicata su Hebenon, nn. 5-6. aprile-novembre 2010) di BETELGEUSE, antologia poetica di ELPIDIO JENCO curata di Fabio Flego, Pezzini Editore, Viareggio 2009

     Poeta e traduttore, Elpidio Jenco nacque il 9 febbraio 1892 a Capodrise, in provincia di Salerno. Trasferitosi a Viareggio nel 1921, vi svolse un'intensa attività di operatore culturale. Vi diresse il locale ginnasio "Carducci" e, quando vi fu istituito, anche l'omonimo liceo, presso il quale insegnò a lungo storia dell'arte. Nel secondo dopoguerra, partecipò alla vita politica viareggina, prima come consigliere comunale eletto nel P.S.I. e poi come assessore alla pubblica istruzione. Fu fra gli artefici della rinascita del Premio Viareggio, della cui Giuria fece parte fino al '55. Con Capasso, Fiumi, Gerini, Marchi ed altri, firmò (nel '48) la Lettera aperta ai poeti italiani sul "realismo" nella lirica. Morì nella patria d'elezione il 30 marzo del 1959.
    
     Il nome e la vicenda creativa di Jenco godettero, finché il poeta fu in vita, d'una cospicua notorietà; dopo la sua morte, invece, rapidamente sprofondarono nel gorgo del silenzio e dell'oblio. Da cui tenta adesso un opportuno recupero quest'antologia: un'ampia scelta di testi poetici, tratti dalle sei raccolte jenchiane edite -- Poemi della Primalba (1919), Notturni romantici (1928), Acquemarine (1929), Cenere azzurra (1932), Essenze (1933) e La vigna rossa (1955) --, curata da Fabio Flego con attento e documentato acume.

     Fin dagli esordi, Jenco seppe conferire dignità poetica alla propria voce, impostandola (in prevalenza) sul respiro breve di un io che, sminuzzandosi e mimetizzandosi nel paesaggio e nelle cose, cercava di captare e stilizzare, per il tramite d'una parola snella, elegante e musicale-visiva, il senso d'ineffabile mistero promanante dalla spettacolo di bellezza offerto dal creato. Il debutto fu di marca dannunziana, ombrata, talora, da un velo di pascoliana malinconia; nondimeno, la vena inventiva del poeta -- pur nel progressivo arricchirsi dei temi (la natura, il sogno, l'amore, la morte, la solitudine, il brivido dell'infinito...) -- presto conseguì una propria cifra identificativa. Ciò avvenne dopo gli anni trascorsi a Napoli, dove Elpidio si laureò in lettere classiche e collaborò con "La Diana", rivista che aggregò molti giovani talenti (da Ungaretti a Onofri, da Ravegnani a Govoni, da De Pisis a Carrà, da Sbarbaro a Vigolo), già avviati ad imprimere le loro orme sulla cultura novecentesca.

     Fondamentali furono per lui l'amicizia con Harukichi Shimoi, italianista docente all'Istituto Orientale di Napoli, e l'incontro con la poesia giapponese contemporanea, specie con quella di Akiko Yosano, dei cui haiku sarà il maggior traduttore italiano. Non meno fondamentale fu la sua partecipazione al cenacolo, animato da Enrico Pea, che si riuniva nella piazza di Forte dei Marmi, "all'ombra del quarto platano del caffè Roma", per approfondire le questioni artistico-letterarie più avvertite del momento (in una foto d'epoca, sono riconoscibili tra gli altri, seduti con Pea e Jenco attorno ad un tavolo del "Roma", Rèpaci, Carrà, Montale, De Grada e Angioletti).

     Il contatto assiduo con quegli amici ne accostò l'invenzione lirica al nascente ermetismo. La parola "pura", di cui già autonomamente si nutrivano i suoi versi, si prosciugò via via perinde ac cadaver e diventò sempre più ellittica ("attuffo", "impaura", "dirocci", "nimbano"...), più analogico-sinestetica e simbolica ("e la sciarpa di spolvero di stelle", "un verderosa stellato di quarzo", "Ultimo, il tempo, / stenderà su pietre trite / il suo lembo di deserto"...), continuando a conservare integra, tuttavia, la lezione di trasparenza, di limpidezza e di concinnitas, appresa dal poeta con l'esperienza di studio e di traduzione degli haiku, come attestano numerose liriche di Essenze e di La vigna rossa.
  
     Ed anche quando la ferocia della guerra l'aprì ai valori della libertà, della giustizia, della lotta partigiana -- si veda la lirica dedicata al sacrificio della contadina uccisa dai nazisti, perché sorpresa a bilanciare sul capo "il canestro del pane, / da portare ai fratelli, / partigiani della patria in armi" --, la poesia jenchiana mai smarrì il suo nativo dono d'incantevoile grazia, d'essenzialità e di cristallino nitore, che la resero (e la rendono) un unicum nel panorama letterario del nostro Novecento.

                                                          Franco Pappalardo La Rosa