lunedì 23 agosto 2010

Franco Pappalardo La Rosa, "Giorgio Luzzi, il caos e la forma", recensione di "Sciame di pietra" (Donzelli, 2009, pp. 118, eu. 14), apparsa su "Istmi", nn. 25-26, giugno 2010

   Anche nei testi poetici di questo Sciame di pietra,1 come in quelli delle precedenti raccolte di Giorgio Luzzi, Predario2 e Talia per pietà,3 il protagonista è un io (non lirico, anzi: decisamente antilirico) che, quando non si misuri con la Storia - e con i tranelli, le insidie, le obnubilazioni mentali e le inesorabili erosioni di essenza umana di cui vengono disseminati i suoi percorsi e le sue prospettive -, si propone alla stregua ora di interprete intransigente, ora di lucido testimone, degli sconquassi, delle tragedie, degli orrori, prodotti in serie da una società globalizzata, e delle connesse-avvertite sensazioni di coartazione delle volontà, di mercificazione dei corpi ("e il mondo è sempre un'armoniosa cura / di membra sfatte, di riordinati / crani e brandelli"4), delle coscienze e persino delle intelligenze individuali.

     Non a caso, gremendosi d'insepolti o dissepolti cadaveri,5 di ossa ripulite,6 di "tristi crani",7 di "scheletri sensati",8 di membra insanguinate, trapassate "da proiettili e mosche"9 et similia - il tutto inquadrato in uno scenario di "Sepolcrali città",10 di assedi, di "fortezze incenerite",11 di nuvole basse dalle quali "piove veleno",12 di "Pioggia e petrolio, incubi iridati",13 di "un sole storto",14 di morte già avvenuta o in atto ("si vedono spogliare cadaveri, difendere mura / bendare occhi, lacerare / camicie"15) -, lo sciame di pietra metaforizza il movimento franoso delle macerie, dei detriti, dei frantumi e delle polveri di un immane disastro: dell'eclissi per implosione di una civiltà, la nostra, con la sequela di incubi, d'angosce, di terrori che lo corredano ("E penso al mio terrore, a questi / miei versi che riverso / su un orizzonte luddita"16). Di cui la poesia di Luzzi fornisce una dolorante, puntuale rappresentazione, increspata dalla variatio dei molteplici registri tonali (dall'ironico giocoso17 al sarcastico,18 dal grottesco19 al paradossale,20 dal tragico21 al sublime malinconico22 o amaro23) proprî dell'ars rhetorica applicata al discorso inventivo-comunicativo.

     Si tratta di variatio dei registri tonali che visibilmente si esercita sulle forme del linguaggio, con il pregio, tra gli altri, di non deprivarle della consistenza dei contenuti rappresentati (poiché le res, inserite talora in vere e proprie elencazioni catalogali, intramano il reticolo linguistico della loro aguzza-materica nettezza di contorni24), non operando, in tal modo, alcuno svuotamento dei relativi sensi verbali. Sicché il procedimento inventivo, e i suoi esiti stilistici, mai trasmettono il sentimento di un'inappartenenza dell'io alla sostanza dell'universo stilizzato, ma, al contrario, ne delineano il pieno protagonismo. Che è, sì, spesso, un protagoniso un po' decentrato, ma non per questo meno umanamente compartecipe, meno immerso nel gorgo magmatico e infuocato (e bruciante) della vicenda - pertenga essa ad accadimenti storici oppure a fatti di cronaca personale o collettiva - che, di volta in volta, lo stesso io elabora e traduce in termini poetici. Da qui l'impressione, trapelante dal denso dettato versale, di una poesia di secondo grado: di una poesia, cioè, la cui scaturigine s'accentra su una forte emozione estetica, peraltro fulmineamente metaforizzata in giudizio critico, generata, oltre che da tensioni e scatti mentali-emozionali interiori, da congeniali stimoli esterni, culturali; aperta, comunque, ai soprassalti proditori della tenerezza e del cuore ("... è il mondo che ci passa vicino / come un camino acceso, un bambino / che dondoli l'umore aspro di canna"25).

     In simile ottica, i testi poetici di Sciame di pietra riservano uno spazio non piccolo ai tre principali tipi di predilezioni culturali, dai quali da sempre il fare inventivo luzziano attinge il suo più vigoroso nutrimento: la letteratura (i libri), la pittura e la musica. Nella raccolta, infatti, assai numerosi affiorano i richiami letterari espliciti o criptici (Il Capitale di Marx, Il Principe di Machiavelli, gli "omaggi" al Proust della Recherche e allo Shakespeare evocato in In partibus Hamleti e nei versi incipitali del quarto componimento della sezione Controsole carne,26 gli abbondanti eserghi, la quasi testuali citazione del tormentoso interrogativo leopardiano - "Questo / è il mondo?" - incastonata nel mezzo di Boul' Mich'); così come altrettanto numerose risultano essere i riferimenti alla pittura (di Tiepolo, Palma il Vecchio, Tiziano, Bosch, Goya, Matisse, Picasso, Kline, Hartung) e quelli alla musica (La messe des Pêcheurs di Gabriel Fauré, un Te Deum, un maestro dell'atonalità quale fu Anton von Webern, il "fandango", ricordato da Da Ponte nel suo libretto per Le nozze di Figaro, André Messager; e, poi, i Recitativi, le varie musiche per danza: "tip-tap o shimmy / pavana o satanassa, spirù, shake, ballo / liscio, gagliarda..."27). E ciò attesta come questa poesia fondi il suo discorso comunicativo su un canone d'interdisciplinarità, in cui entrano contestualmente in gioco, da un lato, la ricerca metaforica e il sottile filtro dell'ironia, alternati o frammisti ad una tensione etica drammatica, e, dall'altro, il calcolo ragionato della disposizione del linguaggio secondo uno schema strutturale e metrico teso a far emergere, insieme con il senso complessivo delle immagini, la loro implacabile evidenza, nel comune, ineludibile destino, coinvolgente l'io e ogni "cosa" del mondo, del Sein zum Tode: dell'essere per la morte.

     Ma la pittura, la musica, la letteratura altro non costituiscono che alcuni dei principali simboli dell'ingegno umano, riassuntivi del prezioso patrimonio di civiltà che l'io vede metaforicamente conservato in quei libri dei quali, con paralizzante terrore28 e a causa del perdurare nell'uomo della primitiva ferocia di homini lupus, si prefigura l'estinzione ("in faccia ai libri, al tramonto, senza un'idea / intrecciato, conserto, congelato, stretto / a un patrimonio estinto"29). Il che comporta l'urgenza, da parte di Luzzi, di ricondurre la poesia, in contrasto con le ricerche della Neoavanguardia30 in via programmatica finalizzate a distruggere il testo e i suoi significati, alla propria primaria possibilità di comunicare. Ecco perché, a differenza dello sperimentalismo neoavanguardistico, la stilizzazione di Sciame di pietra lascia sempre intravedere tanto lo svolgersi di uno sviluppo logico del senso dentro l'intramatura dei versi, quanto il rifiuto d'ogni eventuale condizionamento impostole dalla liricità della parola e della frase poetica, poiché essa sposta il linguaggio su un fronte di precipuo carattere narrativo, ove convergono figure della mente,31 immagini, intuizioni, schemi di rappresentazione, che fungono da organizzatori dell'esperienza conoscitiva.

     Semmai, a volte vi s'impone quell'impossibilità in sé di senso, già predicata dall'esistenzialismo, in cui la negazione, o, addirittura, la tentazione32 del silenzio ("l'amara libertà, / l'impeto di tacere"33), acquistano, antifrasticamente, valore di cosciente-residuale forma di resistenza, e quindi di strenua difesa, dell'umana dignità di continuo attentata da un vivere sociale, che ancora si fonda sul "lordo capitale", che produce e riversa nell'atmosfera tonnellate di mortifere micropolveri ("sgorga dalla nube piatta / green di catrame e cenere sospesa // di solfuri"34), che nasconde le "cronache di Gaza" e finge d'ignorare il perpetrarsi delle violenze, delle torture, delle stragi, delle "pioggerelle e risatine" scaricate dai caccia dei vari Mr. Olmert sugli inermi delle più disparate zone del pianeta.

     Nei testi di Sciame di pietra, insomma, c'è, dominante, il senso d'una natura vagheggiata nella sua, ormai impossibile, arcadia violata e orrendamente deturpata; c'è, ancora, quasi spasmodica, l'attesa (o, forse, la non del tutto dismessa speranza) di "qualcosa che ci porti / fuori da questa storia scritta";35 e c'è, soprattutto, la pietas nei confronti di un'umanità "disorientata", che stenta ogni giorno l'esistenza correndo, consapevole, verso il baratro del Nulla che è la morte. Sono questi, in stringata sintesi, i motivi che Luzzi, spesso con ilare disperazione (le sue versificazioni, per esempio, diventano "microcisti sintattiche, formicole peregrine"36), sa captare e potentemente stilizzare, grazie all'impiego di una scrittura poetica assai variata nei metri e nei ritmi, che non si vieta il recupero della parola anche preziosa, aulica, dotta,37 carica di suggestioni evocativo-rappresentative38 e di vis figurale,39 né rinuncia alle forme dialogate, alle rime, alle riprese anaforiche,40 ai giochi allitterativi41 o reiterativi (con incremento o decremento) di gruppi sillabici omofoni,42 adoperati, tutti, in direzione di una raffinatissima - e spaesante - costruzione delle immagini in funzione tonale.

                                                                                           Franco Pappalardo La Rosa

       NOTE

       1 Roma, Donzelli, 2009, pp. 118.
      2 Venezia, Marsilio, 1997.
      3 Milano, Scheiwiller, 2003.
      4 Cfr. 6 (cavallo), nella sequenza di Guernicana.
       5 "Corpi / ritornano a comparire tra il pietrame": Esprimono - si va.
       6 "ossa qui / compilate e serene, fuori orario, dopo / il lavoro e il pasto, ripulite, in ordine": L'ossa.
      7 Cfr., nella sezione Oiseau-Mort, "Il corpo, che molti vedrebbero felicemente trionfare".
      8 Totentanz. Si ponga pure attenzione al verso "Ha un filmato di scheletri la mente" (cfr. Dalmatica), che apre un significativo spiraglio sul muro delle ossessioni rappresentate dall'io.
      9 Dalmatica, cit.
    10 Ibidem.
    11 Ibidem.
    12 "Ho rivisto la poca ombra profonda", nella sezione Controsole carne.
    13 E' il penultimo verso della seconda strofe di E domani.
    14 Cfr. ivi, quarto verso della seconda strofe.
    15 Cfr. la quinta sequenza di Disastri. Nella sequenza successiva, il quadro tanatologico moltiplica ed accentua i suoi segni: "seppellire la carne, i monti / di corpi nudi, trovare / il tempo di interrare, nottetempo / scavare, cavare / togliere via le pietre più angolose / lasciare nicchie per le nuche...".
    16 Casa del terrore. Cfr. anche Notizie dallo sferisferio, Deposizione, Nome in pezzi e Basterra vide.
    17 Cfr. l'autoritratto abbozzato in Sogno del vecchio frescante.
    18 "Ma Lei, Mr. Olmert, / Lei è troppo vicino a noi, Lei ha / troppi completi nell'armadio, troppi sudici dollari / in banca / [...] e troppi / ha Lei piloti d'aria armati che tornano a sera / e baciano i bambini / e di giorno hanno scaricato pioggerelle e risatine / sul reddito irrisorio di tuguri palestini": Morietur
    19 "Al fondo / di una camera di tortura in disuso giocava, stridente rideva / un gruppo misto di canasta / con giarrettiere e bretelle": Notizie dallo sferisferio, cit.; "Quel cane che scoppiò dopo aver divorato una saponetta": Poesia dipinta alla maniera di Franz Kline.
    20 "come se dicessimo che questa è una pipa / o frasi come Aurora Aurorale o Pane Panico / necessarie a chi vede il corpo minacciosamente / avvicinarsi alle parole...": ibidem.
    21 "Fuggendo / noi li abbiamo sempre qui, prossimi, / quei nomi di un doppio dolore / i figli spariti e le madri argentine / che additano ancora il punto preciso dell'oceano / dove i figli furono pasto ai pesci, fasto / in un fast-food di generali di origine italiana": cfr. il componimento d'aperura della sezione Nome in pezzi, cit.
    22 "E il cuore / il grande ossessionato intravedeva / oltre il golfo nuove donne, nuovi modi / di ondeggiare e sorridere. / Ma questo / è ciò che non ho detto quarant'anni fa, quando avevamo / indulgenza e passione e il mondo / non era ancora un arido / sanguinante o incendiato / catalogo di zone": Il Tour entra in Rue Foch.
    23 "Ma quando siedi e guardi / con un numero stampato tra le ciglia e l'iride smarrita / e la provvista di carta quotidiana, quando siedi / con la tua razione di parole d'amore, / entra nel tuo scenario l'amara libertà, / l'impeto di tacere": sono i versi conclusivi del citato componimento d'apertura della sezione Nome in pezzi, cit.
    24 "ghiaia pietrisco sabbia humus terriccio / polvere": cfr. la sesta sequenza di Disastri, cit.
    25 Fistularia. Cfr. anche il componimento che principia con "Dal capolino delle susine. Là ti trovi. Tratti".
    26 "dormire, forse / morire".
    27 Le danze rovesciate.
    28 Com'è noto, Heidegger considera l'Angst, l'angoscia, uno stato d'animo ontologicamente rivelativo (perché, spaesandoci, ci fa esperire il Niente), non provocato da alcunché di preciso, e la distingue dalla paura (Furcht), che è - dice - sempre paura di qualcosa. Nella poesia di Luzzi, sintomaticamente compare (nel componimento che inizia con "C'era una sorta di catrame gassoso") il morfema Furcht.
     29 "in faccia ai libri, al tramonto, senza un'idea".
    30 Di cui, comunque, mantiene l'intarsio plurilinguistico.
     31 Anche corruschi guizzi di incubi: Cfr. Notizie dallo sferisferio, cit.
    32 E' chiaro che si tratta di una pura fictio.
    33 Cfr il primo componimento, cit., della sezione Nome in pezzi.
    34 Finis Asiae.
    35 Boulez di bosco.
    36 Casa del terrore, cit.
    37 Per esempio: "obliatori", "preclare", "manto", "vegliardi" "donneare", "racemo", "perigliosa", "piaggia", "ridda", "dipintore" "dòmini", "semprità", "macule", "frali", "bassure".
    38 "... Era dicembre alla sua fine, la luce / piombava fortissima, punitiva, sopra me, / rideva un vetro d'oro per l'anno congedato...": En calant de Cimietz.
    39 "Gridano / come vipere in parto le bandiere / dai tetti": secondo componimento di Finis Asiae, cit.; "Acciambellato / sull'anima cerbiatta": Erle; "Lei regge un complicato foulard che sembra volare via": Deposizione; "L'uomo si fa largo con le sue acciughe di Biscaglia / che luccicano al sole come morte nature": Pescatore basco 1937; "era stato l'occhio rosso del sigaro a spalancarsi nella notte": L'entomologo; "capelli mossi e bruni / che il vento maggese scuoteva": prima sequenza di Nome in pezzi, cit.; "Usava volgere sul cranio sudato e prelato / i pochi capelli di lato": quinta sequenza di Basterra vide, cit.
    40 "di rappresentare / di non parlare / di illuminare / di avvicinare...": settima sequenza di Guernicana, cit.; "sulla scala di legno / sulla scala di pietra": "E c'è ancora chi canta, poi si spoglia".
    41 "ridicoli ricordi": Gravius si congeda; "nel vino vivo": Heimkehr; "lastrici lasciati": Notizie dallo sferisferio, cit.;"fune ferrea": quinto componimento della sezione Controsole carne, cit.; "frenetico formicolare": sesto componimento della citata sezione Controsole carne; "Trillavano / trucioli di teologia": Basterra vide, cit.
    42 "uno spazio di barlumi e frantumi": Notizie dallo sferisferio, cit.; "tra lombo e spalla il lampo di un coltello": Le danze rovesciate, cit.; "a salve di sale salutata": Heimkher, cit.; "si roderà la roggia": E nella caligine dell'una, dal clamore; "caste in cataste": L'ossa, cit.; "Scavare, cavare": sesta sequenza di Disastri, cit.
 
 
                                                        



















venerdì 20 agosto 2010

Franco Pappalardo La Rosa, recensione di "Pronuncia d'inverno", poesie di Evelina De Signoribus (Canalini e Santoni, Ancona, 2009, pp.76, Eu. 12)), apparsa su "L'indice dei libri del mese", luglio-agosto 2010, p.20.

     Preceduti da una Nota di Enrico Capodaglio e ripartiti in quattro sezioni, i testi della silloge - poesie e brevi prose "metriche" - presentano un io intento a sceverare, con lucida acribia, il grumo di dolore che gli ha radicato dentro l'"innaturale maniera di sopravvivere" in una realtà raggelata. Si tratta di un io femmina, di una Elle, la cui scrittura, sintomaticamente, assume il corpo non solo come carne sensibile alle trafitture di quel grumo di dolore, ma anche come centro di controllo, da parte della stessa, del persistere della propria identità ("Mi chiedo se sono ancora io, / se ancora sono in possesso del mio corpo"),

     Per questo la protagonista della poesia di De Signoribus si autorappresenta nell'atto di vivere angoscianti situazioni beckettiane - fra stanze zeppe di oggetti, corridoi, pianerottoli, bui cunicoli -, nelle quali affiorano straniti lacerti di vita, echi di voci, "stracci di lingue clandestine", di rabbie, rancori, desideri, rimorsi, e dove ogni movimento le viene imperdito (si veda La preghiera). Oppure si mimetizza nelle enigmatiche creature, Elsa, Anna, Emma, le parlanti le "lingue clandestine", convocate sul proscenio del teatrino d'ombre animato dai testi, nella cui eterna vicenda di sogni infranti, di pena, di sopraffazione, di noia, di disamore, consumata nel chiuso di stanze-prigioni e osservata con sororale pietas, lei si proietta e si riconosce: "io contemplavo la ferita di Emma che Anna lasciava sanguinare".
 
     Benché vi compaia qualche consonanza di rime ("in un tracollo fitto e irto / che forse sarà descritto a pagina..."), non c'è musica né canto, in queste corrusche-aguzze, intense, scritture; c'è, invece, il basso continuo alimentato dai borborigmi di una Elle in sofferenza, ormai rassegnata a pronunciare smozzicate spoglie di parole (di cui si "sovviene il suono, non il senso") in un mondo dove "tutto quello che viene detto è irrilevante / e senza eco".

                                                                                            Franco Pappalardo La Rosa


martedì 17 agosto 2010

Dell'"altro', del 'diverso', in "LADYBOY" di Roberto Bertoldo. Recensione di Franco Pappalardo La Rosa

     Don Giuseppe è un prete, parroco di un paese di campagna. E' uno che si dà un gran da fare nella cura delle anime dei suoi parrocchiani. Oltre che nelle ordinarie incombenze del ministero sacerdotale, è impegnato in una miriade di altre attività, che riempiono l'horror vacui della sua giornata. Come, per esempio, tener d'occhio (e redimere) l'immigrato tunisino Hrabal, muratore di giorno e di notte spacciatore, che la moglie ha lasciato per convivere con un "infedele", oppure organizzare un'aula in parrocchia, dove insegnare i rudimenti di lingua italiana ai figli di chi, dalle più disparate zone del pianeta, la miseria e la disperazione catapultano anche in paese.

     L'uomo ha da poco superato i quarant'anni: un'età in cui si fanno i primi bilanci della propria vita. Bilanci che non devono essergli risultati positivi, se egli vive la maturità come una regressione: se si sente deluso dalla fede che, fin dall'infanzia, ne ha illuminato l'esistenza (dopo aver detto messa, non a caso riflette: "Andate in pace, che io resto qui con la faccia buona a combattere anche per voi. Nel nome del Signore! E quale pace è in grado di fornire il Signore che ha inventato le tombe e ci schiaffa dentro tutti i suoi figli?").
     La sua crisi esistenziale, che si sostanzia nella paura della morte, diventa ben presto anche spirituale. Talmente profonda da farlo dubitare persino della genuità della propria vocazione. ("Su di lui" - annota l'autore - "la morte aveva avuto il sopravvento subito: era divenuta una presenza asfissiante, con cui fare i conti per la salvezza di un'anima che non si era mai data la briga di ringraziare, di palesarsi. E se fosse stata fasulla la chiamata? Se avesse dedicato a Dio, sbagliando, la sua unica vita?"). Questa crisi si aggraverà, poi, dal momento in cui Liza, una giovanissima cinese da poco giunta in paese con la madre, inizierà a frequentare la multietnica aula dove lui dà lezioni.

     L'incontro con la ragazza, infatti, gli sconvolge l'esistenza. Dapprima sarà il brivido generato dall'incrociarsi d'uno sguardo, o da una carezza che produce un subbuglio nel cuore del prete (il quale confesserà: "Avevo nel petto una vergogna: la mia carezza. Non la carezza in sé, ma il suo effetto [...]. Fantasticavo. Mi rendevo conto che l'elemento più comune è la pelle, che la pelle ricopre i nostri corpi [...]. Non può che annidarsi in essa la voluttà. E la colpa"). In seguito, d'emozione in emozione, lo spazio che distanzia il corpo del prete da quello della cinesina si ridurrà ("Liza non dimostrava disgusto e neppure indifferenza. Si sfiorarono, si fecero ancora più stretti [...]. 'Mi fai dire messa questa sera?'. Liza lo guardava divertita. Don Giuseppe le lanciò un sorriso sofisticato e lei gli si riavvicinò e gli prese le mani"). Infine, tale spazio non potrà che annullarsi: "Era accaduto tutto rapidamente. Liza era venuta, decisa, si era abbandonata al suo petto. Lui le aveva carezzato la schiena e lei gli aveva dato le labbra".

     Fin qui, il romanzo di Roberto Bertoldo (Ladyboy, Milano, Mimesis, 2009, pp. 143, euro 14) sembra narrare la vicenda - magari un po' piccante, dato l'approcio seduttivo fra l'esotica lolita e il maturo prete - di un ordinario innamoramento. Ma è da qui che il dramma, peraltro già alluso nei capitoli d'avvio per sapienti-minime anticipazioni, subisce una brusca sterzata: sul letto dove si distendono per fare l'amore, Liza confessa all'innamorato di essere "diversa": di essere "femmina a metà"; e don Giuseppe, dopo un'istintiva reazione di sbigottimento ("Continuo ad accarezzarla, ma le mani sono passate subito al suo viso, sono di padre adesso, o forse hanno solo una pietà da prete"), si lascia andare fra le braccia della creatura che ama ("Mi sentivo poca cosa al suo cospetto. Che mi importava che non fosse donna del tutto? Era la mia salvezza. Io che avevo conosciuto tutte le imperfezioni dei maschi e delle femmine adesso potevo accogliere su di me, sulla mia imperfezione, la solitudine dell'anarchia sessuale").

      Seguono settimane, forse mesi, di sbornia passionale: l'uomo e la ragazza si allontanano dal paese, vanno a vivere in un bungalow sulla spiaggia, fanno vita libera: "Lontani dal paese, Liza e Giuseppe si sentivano come sdoganati. Non c'era differenza tra di loro e gli altri, tra il loro amore e i sentimenti altrui".  E non si chiedono quanto sarebbe durata: non se lo chiede Giuseppe, il quale vuole solamente, come egli afferma, vivere, né se lo chiede Liza, che, da parte sua, non desidera che essere amata senza essere giudicata. Anche se Giuseppe, più maturo, riflette: "No, Liza non sarebbe stata sempre felice con me. Io ero il suo medico, niente di più. Era affascinata dalla mia capacità di farla sentire normale e donna". Infatti, quando il loro ménage pare normalizzarsi (andando ad esaurirsi i risparmi dell'uomo, la coppia s'era fatta assumere come "tuttofare" dal proprietario dei bungalow), il sentimento della ragazza verso l'innamorato comincia a raffreddarsi e, nel giro di brevissimo tempo, si spegne.
     Per l'uomo è il tracollo. Torna al paese, preceduto dalla voce d'essere stato ammalato (ma i parrocchiani sapevano ch'era fuggito con una cinese transessuale), riprende ad officiare messa, a lavorare alacremente. La solitudine e la depressione, tuttavia, lo inducono a cercar conforto nell'alcol: sicché, a fatica, egli riesce a finire i suoi sermoni. E, quando il bere non gli basta più, gli viene in soccorso Hrabal con la droga. All'acme del suo abbrutimento, lascia l'abito talare, affitta una camera nel centro storico e ricomincia a dare lezioni private. Consumerà così gli ultimi scampoli d'esistenza (con la mente ossessionata dal ricordo di Lisa, che, intanto, si era "sistemata" con un coetaneo), fino all'epilogo, la cui scoperta non va sottratta all'interesse dei lettori.

     Argomento di scottante attualità, questo affrontato da Roberto Bertoldo in Ladyboy: un argomento che narrativamente rappresenta i problemi dell'altro e del diverso, da sempre esistenti, ma oggi resi più visibili e proiettati in primo piano dalla nostra civiltà globalizzata.
     Rispetto ai parrocchiani, ai frequentatori del bar, all'immigrato Hrabal e alla stessa Liza, altro e diverso è don Giuseppe, in quanto prete ("il prete non mira che al bene del prossimo; dunque lui non doveva ascoltare né i bisogni del proprio cuore né quelli del proprio corpo..."); rispetto agli abitanti del paese, al boss locale della droga e ai poliziotti, altro e diverso è Hrabal, in quanto immigrato, estraneo alla comunità nella quale vive ("Non sono un ospite, stronzi! Io ho le mani bucate dalla calce per voi"; "L'avevano infinocchiato, Righelli gli aveva costruito un cappio [...]. Serve un colpevole per il don? Eccolo: bello e confezionato!"); viceversa, rispetto a Hrabal, altri e diversi sono la gente del paese, gli italiani, l'Occidente ("Secondo Hrabal, l'Occidente aveva rovinato il cuore della moglie. Ricordava bene quel viaggio da topi. A portare la sua donna nelle grinfie degli infedeli"; "E cominciò a progettare una vendetta: si fece spacciatore. Si era sentito giustificato del farlo, perché gli italiani lo guardavano con fastidio"); infine, rispetto alla madre, agli abitanti del paese, a quanti ne conoscono la situazione sessuale e, in generale, alla restante umanità che la circonda, altra e diversa è Liza, simbolo del disordine, dell'anarchia sessuale ("Mia madre mi portò via dalla Cina presto, anche per il mercato che c'era per quelli come me, naturali o siliconati a bizzeffe in laboratorio"; "Fossi nata con le orecchie a sventola! Ero invece qualcosa di sconosciuto. In ogni caso, sola. Sola senza razza").

     In ultima analisi, il romanzo non narra che intersecate storie d'emarginazione e di solitudine. Emarginato in mezzo alla gente è, a ben riflettere, il prete, che vive in estrema-desolata solitudine prima la sua cirsi esistenziale e spirituale, poi la sua relazione sentimentale con la giovane transessuale e, per ultimo, il suo sprofondare nel gorgo della disperazione e dell'abbrutimento (lui, come si autocommisera, "povero bambino che mai nessuno aveva coccolato e che nessuna coccola di adulto avrebbe potuto soddisfare"). Ermarginato è Hrabal, in quanto immigrato, cioè sradicato, e di religione islamica, che subisce l'onta d'essere abbandonato dalla moglie per un "infedele" e che vive astiosamente la propria solitudine (ricordiamo: "Secondo Hrabal, l'Occidente aveva rovinato il cuore della moglie..."). Ancora più emarginata è Liza, col segreto che si porta addosso come un indelebile marchio e con l'angoscia del monstrum che l'attanaglia.

     In questo muro di solitudine, d'emarginazione e di disperazione (d'irrimediabile dolore, insomma), lo scrittore lascia aperto, comunque, uno spiraglio alla speranza. I cui segni si colgono - benché qua e là (all'apparenza) distrattamente disseminati -, nell'ostinata ricerca dell'incontro personale con l'altro, nel quale si riconosce la nascosta ferita del proprio soffrire, del proprio sentirsi emarginati, della propria annichilente solitudine. E' così che Hrabal avverte, nei confronti della comunità che lo ha accolto, quasi il rimorso di spacciare ("Prima o poi avrebbero capito che spacciava. Gli dispiaceva, tutto sommato, perché era stato accettato..."); è così che don Giuseppe può accogliere, e considerarla come la sua sola àncora di salvezza, "la solitudine dell'anarchia sessuale" di Liza; ed è così che la giovane trans potrà confessare: "Mi odiai fino a quando qualcuno cominciò ad amarmi. E lo cercai dovunque questo qualcuno. Che non tardò, con Giuseppe che mi ascoltava, e mi capiva. Non ero una bestia rara, per lui; ero una pecorella o, semplicemente, una ragazza".

     Un'ultima notazione: non c'è nulla, in Ladyboy, di pornografico, di morboso, di volgare. Tutto è narrato con estrema delicatezza, con discrezione, con il sottofondo del basso continuo di una soffusa-compartecipe pietas verso l'unicità dei destini d'ogni creatura. E tutto è sorretto - pregio non piccolo né di poco conto - da una scrittura spumeggiante, inventiva, dal periodare breve ma denso di linfe di pensiero, capace di scendere nel profondo delle psicologie dei personaggi e scandagliarle. Una scrittura, che sviluppa un magistrale mélange di discorso in terza e in prima persona e che, di conseguenza, sembra mettere in scena, contestualmente, il momento narrativo-rappresentativo e le psicologie, coscienza e inconscio, dei personaggi, con una sclatrita tecnica dei balzi (avanti e indietro) propri dell'impiego del flash-back, e con non rare, baluginanti, schegge liriche.

                                                                   Franco Pappalardo La Rosa















 




lunedì 9 agosto 2010

"Fuori Gioco" di Salvatore Scalia (Venezia, Marsilio, 2009). Recensione di Franco Pappalardo La Rosa

     In Fuori gioco di Salvatore Scalia (Venezia, Marsilio, 2009, pp. 128, euro 12), il protagonista, Paolo Malerba, è colto e rappresentato in tre fasi cruciali della propria vicenda umana, corrispondenti alle tre parti in cui il romanzo è suddiviso. La prima, intitolata La vigilia e datata Novembre 1969, è riferita al periodo nel quale, giocando nella squadra del proprio paese e contando su un indubbio talento pedatorio, il ragazzo s'immagina un avvenire di calciatore professionista in una delle squadre del massimo campionato nazionale. La seconda, intitolata Sull'Etna e datata Maggio 1989, appartiene ad un tempo che ha già segnato il naufragio delle illusioni del protagonista e lo ha costretto a prendere atto della cruda verità della vita. La terza, infine, coincide con il tempo del crollo nervoso-mentale dell'uomo che, ancor giovane, si è dovuto rendere conto d'avere sprecato i migliori anni della propria esistenza ad inseguire prima la vanità dei sogni e poi quella delle promesse del potente di turno, e intanto ha visto franare intorno a sé ogni rapporto affettivo e sentimentale. Narrata nella stringata forma della notazione diaristica redatta dal fratello minore del protagonista, questa parte s'intitola (appunto!) Il diario e abbraccia un arco di tempo che va dalla fine del 1974 al 12 ottobre 2001.

     Ad apertura, il romanzo presenta l'adolescente Paolo che raggiunge in bici il campo sportivo. Ci va non solo per giocare, ma perché lì, in quello "spazio sottratto al caos del mondo", sa di trovare un proprio equilibrio psicofisico. Anche se il sogno che egli accarezza non è suo soltanto, ma appartiene pure - e forse principalmente - al padre Tino: uomo fissato col calcio ("Oggi i soldi si fanno dando calci a un pallone"), che ha inculcato la sua mania al figlio maggiore, "trasformando il gioco in tormento, con allenamenti assidui, controllando la dieta, mortificando l'abilità culinaria della moglie".
     Dotato di una buona dose di relativismo morale, Tino, operaio elettricista presso il comune (e per questo soprannominato Fiat Lux), è disposto a tutto pur di aiutare il figlio: lo esorterà a divertirsi con le femmine, ma senza lasciarsi accalappiare per non rovinarsi la carriera; lo incoraggerà, fallito il miraggio del professionismo calcistico, a mettersi al servizio del politico emergente e, soprattutto, della sessualmente inquieta consorte di costui ("Se ti prendono a benvolere" - gli dirà - "sei sistemato"); lo indurrà persino, dopo che il figlio è stato cacciato dalla squadra, all'umiliazione di chiedere un lavoro al nuovo presidente della società sportiva, un ex compagno di gioco divenuto nel frattempo mafioso.

     La madre, invece, è una donna che ha dedicato la propria esistenza alla famiglia e ai figli, per la cui protezione non smette di lottare ("Se t'azzardi a farlo cantare ancora una volta ti scanno" non esiterà a minacciare il marito con un coltellaccio da cucina: era accaduto che Tino, scoperto che il figlio minore era dotato di una bella voce, aveva abbandonato alla sua sorte Paolo e si era trasformato in impresario del ragazzino, facendone l'attrazione canora a pagamento di tutti i teatrini e le feste paesane della provincia). Ma è anche una donna che, prevaricata dalla continua prepotenza del marito, finisce per essere sfiorata dal pensiero d'una vita diversa.
     All'ambiente familiare fanno da non secondarie cornici quello geografico (i suggestivi paesaggi dell'Etna, rivisitati con l'identico-incantato sguardo infantile che li aveva mitizzati) e quello, antropologico-culturale, del microuniverso di tipi umani addensati in una cittadina della provincia siciliana (le partite di calcio, il ritrovo degli amici al bar, le loro eterne chiacchiere, gli sfottò, i pettegolezzi...) tratteggiato con deciso piglio scritturale anche nei più inquietanti risvolti di costume (l'ascesa del giovane mafioso, la speculazione edilizia intorno al campo sportivo, il peso dell'appoggio della mafia nel successo elettorale del candidato locale ecc.).

     In simile contesto si consuma la storia sportiva e umana di Paolo, dal momento in cui, poco più che adolescente, viene chiamato a Milano per un provino all'Inter (provino superato brillantemente in campo, ma reso vano dal controllo medico: una piccola calcificazione polmonare priverà il ragazzo della perfetta idoneità fisica indispendabile per intraprendere la carriera di calciatore professionista), all'altro nel quale, dopo anni di militanza nella squadra cittadina, ne verrà impietosamente estromesso dal nuovo presidente; da quello della delusione conseguente al fallimento del rapporto sentimentale con Lina, la capricciosa moglie dell'ex presidente della società calcistica (riciclatosi in politico in carriera), all'ultimo, davvero drammatico, che concluderà l'avventura esistenziale del protagonista sulla scia del filosofo Empedocle.

     Certo, Paolo Malerba non possiede la coscienza d'essere figlio del relativismo morale, delle spertezze di Tino (cui apparrtiene la sequente graduatoria degli sperti: "In primis l'onorevole Drago che mangia e fa mangiare. A Catania non si muove foglia che l'ingegnere non voglia [...]. In secundis il nostro compaesano Ciccio Trecculi che quant'è fortunato lo dice la parola stessa. Nacque tinto muratore e ora è cavaliere del lavoro [...]. Terzo il barone: quand'era sindaco si è fatto approvare un piano regolatore che prevedeva lo sviluppo edilizio delle sue sciare. E' un mago che ha trasformato la lava in oro [...]. Quarto Petro 'u turcu, carusazzo del Fortino, che non sapeva fare manco la O col bicchiere, divenuto padre della patria. Quinto Padre Filippo: ha sistemato tutta la parentela e anche le amanti. Ruba a destra e a manca, ma lo assolvono sempre con la scusa che è malato..."): dell'uomo che si presenta come l'incarnazione della vuotaggine, della superficialità, della perdita di senso dei valori, sottostanti al mito del conseguimento facile e ad ogni costo del successo e della ricchezza, ormai invalso nella nostra malata società dell'apparire più che dell'essere. Da tale specola, in virtù della concezione distorta che del gioco del calcio hanno Fiat Lux, Paolo e non pochi altri che ragionano con la  medesima mentalità, Fuori gioco dilata la propria vis rappresentativa, fino a costituire una lucida e dolotante allegoria del malessere profondo che affligge la società e l'uomo d'oggi.

     Si tratta di un'allegoria, peraltro, che riflette la visione tragico-pessimistica dell'universo propria della maggiore letteratura meridionale e dove contano, in particolare, la qualità e lo spessore che rendono riconoscibile una scrittura tutta colpi di spatola, rapide pennellate e balenanti illuminazioni liriche (specie là dove essa si accentri sulla stilizzazione dei paesaggi attorno al vulcano). Una scrittura organizzata a "stazioni", con una sintassi paratattica e rare subordinate. Alla quale dà colore, non solo decorativo ma anche connotativo, l'innesto della parlata dialettale etnea spesso magistralmente tradotta in lingua ("si meritava la testa scippata",
"non scòncica femmine", "sparò una bella minchiata", "che ti possa cadere la lingua fitusa", "una santarellina, del tipo non mi toccare che mi scòzzolo..."), i cui moduli stilistico-espressivi - la parodia, la satira di costume e un sottile ghigno ironico teso al grottesco - richiamano, tanto per la similarità del catalogo lessematico impiegato quanto per la struttura del periodare - un po' il Brancati de Gli anni perduti.

                                                                Franco PAPPALARDO LA ROSA

Franco Pappalardo La Rosa, "Il caso Mozart" (Gremese, Roma 2009). Recensione di Antonio Di Mauro su "La Sicilia" del 9 aprile 2010, p.24.

     Dagli studi biografici a quelli prettamente specialistici di musicologia, dalla letteratura al cinema, la questione della misteriosa morte di Mozart, avvenuta il 5 dicembre 1791, ha suscitato una gamma di ipotesi dalle più banali a quelle più suggestive, senza tuttavia prospettare una plausibile soluzione di un vero e proprio "caso" Mozart.
     Con impensabile esito, tanto da meritare questa volta il crisma della "plausibilità", ultimamente si è occupato del "caso" un narratore di "razza", siciliano d'origine ma torinese da quasi cinquant'anni, Franco Pappalardo La Rosa, nonché critico letterario, autore di interessanti saggi critici su narratori e poeti italiani del Novecento, delle opere di narrativa Il vero Antonello e altri racconti (1985) e Angelo (1999).
     Pappalardo La Rosa ricava lo spunto per Il caso Mozart (Gremese Editore, pp. 224, euro 14) da documenti autentici poco conosciuti per dare via libera all'invenzione romanzesca di una vicenda che prende avvio da una mortale bastonatura della quale la vittima è proprio il grande musicista salisburghese, notoriamente libertino, di costumi piuttosto spregiudicati in cui convivono "romanticamente" genio e sregolatezza, in un ambiente d'epoca ricostruito nella suggestiva quanto realistica visione di strade, case, palazzi del potere, vita quotidiana della capitale asburgica sul finire del XVIII secolo.
     Ne viene fuori bene imbastito un vero e proprio romanzo storico che racconta quei primi giorni del fatale dicembre 1791 con una passione a dir poco scrupolosa nella sua quasi maniacale compiutezza, così restituendoci tutto, anche lo spirito più nascosto, degli ambienti e dei personaggi in cui maturò il tragico evento Se non la soluzione definitiva del mistero della morte di Mozart, un fatto emerge, chiarissimo nel racconto del Pappalardo La Rosa, che i trentasei anni di Mozart non furono solo anni di stupefacente attività creativa nel segno della più pura e originale modernità.
     Finito il libro, sulla morte di Mozart ne sappiamo quanto prima. Sulla corte di Vienna (negli anni in cui la Francia e l'Europa intera si preparavano a stravolgimenti epocali) ne sappiamo molto di più. E questo "molto", che è poi la disgustosa ipocrisia del potere assoluto, rende plausibile anche l'intrigo che potrebbe essersi sviluppato attorno allo scapestrato geniale maestro.
     Scritto con una prosa accattivante, in uno stile sapientemente variegato nei toni, nel registro, dalle movenze quasi mozartiane, questo libro conferma le singolarità narrative di Franco Pappalardo La Rosa.

                                                                        Antonio DI MAURO
   

Franco Pappalardo La Rosa, "Il caso Mozart"(Gremese Editore). Recensione di Loris M. Marchetti su "Nuova informazione bibliografica", 1/2010, gennaio-marzo 2010

     Mozart colpisce ancora. Mozart colpisce sempre. Colpisce - si intende - alla sua maniera, innocente e persuasiva, soave e squassante, angelica e demoniaca. Colpisce ancora, colpisce sempre, perché sembra ben lontana dall'esaurirsi l'onda lunga dei richiami, degli influssi, dei coinvolgimenti che le sirene della vita e dell'opera, spesso congiunte e alimentate da un pathos leggendario di perenne autocarica, da ormai oltre due secoli continuano ad inviare, oltre che agli addetti ai lavori (musicisti, musicologi, storici della musica e del teatro musicale - la cui operosità istituzionalmente non ha ragione di fermarsi) e ai melomani (il cui amore per i capolavori imperituri non ha motivo di estinguersi), anche ad artisti filosofi poeti romanzieri nei confronti dei quali il mito mozartiano agisce da inesauribile e inarrestabile fonte di ispirazione, di riflessione, di interpretazione, di identificazione persino: per lo più associato, e non sempre congruamente, a quello di Don Giovanni (figura non inventata dal Genio salisburghese, ma grazie a lui entrata nell'immortalità), oppure - con una relazione personale anche più stretta - al mistero supremo del Requiem incompiuto, la cui aura leggendaria si sposa ovviamente con l'ipersollecitato (forsanche in eccesso) mistero della morte del suo autore.

     Non sarà però fuori luogo, prima di soffermarci con qualche appunto di lettura su Il caso Mozart, ricordare che già nel racconto Passaggio notturno, nel volume dello stesso Pappalardo La Rosa, Angelo (Torino, Ananke, 1999), facemmo la conoscenza di Mozart in compagnia di Da Ponte, Salieri, Casanova, Cagliostro in una Vienna visionaria e spettrale, sottilmente demoniaca tra Faust e Don Giovanni, letterariamente un poco sospesa tra Poe e Buzzati. Se poi si aggiunge che nello stesso volume traviamo anche un racconto, Rondò, incentrato su un fantasmatico Carlo Goldoni cittadino particolarissimo di una Venezia stregata, potremo già segnare fin d'ora, anticipatamente, una prima e fondamentale acquisizione critica sul nostro romanzo, quella che vede il suo autore sì affascinato dal Settecento, ma proprio in virtù della duplicità, dell'ambiguità di questo secolo, di cui ama sondare con acuta sottigliezza, e ricreare narrativamente, il versante recondito nero sulfureo, non quello illuminato dal sorriso della Ragione e dell'Ottimismo, l'altro Settecento insomma, quello che sta dietro allo splendore e alla bellezza dei Lumi, che nasconde un'intelligenza inquietante e uno spirito tenebroso, una moralità sordida e bacata, un'umanità meschina e miserabile.

     In questo romanzo Pappalardo riprende il "suo" Mozart in una Vienna gelida e notturna per riconsegnarcelo al momento della morte, al punto non a caso più controverso e struggente della biografia del Maestro, intorno al quale sin dall'inizio si sono versati fiumi di inchiostro e altri, magari on line, se ne verseranno, con ogni probabilità mai abilitati a vergare la parola definitiva. Il narratore - è ovvio - non è uno storico, è un affabulatore, un inventore, ma si vale di un'accurata e selezionata documentazione storica (sagacemente incorporata nel testo) per ricostruire liberamente quella che potrebbe essere stata la vera causa della morte di Wolfgang, in modo tale da consentire di comprendere una serie di eventi succesivi assai oscuri e pressoché inesplicabili (il funerale dei poveri e in gran segreto, la sepoltura nella fossa comune con dispersione del cadavere, ecc.) sui quali da sempre ci si interroga senza pervenire a soluzione ultima ed univoca.

     La vicenda si sconfigura quindi come un trhiller "storico" - se così si può definire - la cui sostanza, la cui suspence, si concretizza tuttavia dopo la morte del musicista, che lo scrittore non esita ad attribuire a una causa che la storiografia più accreditata ha per lo più ritenuto inattendibile o comunque non decisiva, vale a dire quale conseguenza delle bastonate che un marito geloso (quasi certamente non a torto) avrebbe inferto in una buia e fredda notte di dicembre all'esuberante Wolferl, andando naturalmente al di là delle intenzioni. Ma siccome il bastonato e poi defunto è il Kammermusikus, il compositore della Camera Imperiale (oltre che gloria nazionale in ogni caso), l'involontario omicida un impiegato di Cancelleria presso il Real Tribunale di Vienna, quindi un funzionario dell'Impero, ed entrambi, come pure l'imperatore Leopoldo II e i principali Ministri di Stato, affiliati alla Massonaria, è intuibile che sta per scoppiare un caso clamoroso, uno scandalo inaudito: onde è tassativo che lo scandalo non scoppi e il "caso" sia messo a tacere prima di nascere.

     Ed è qui, allora, che scattano l'estro e la maestria del narratore nell'intrecciare in un componimento misto di storia e di invenzione (per dirla con il venerando Manzoni) il fili del vero e del verisimile per approdare ad un porto sinistro dove le sorti individuali di esseri noti od ignoti, di persone oscure o famose, vengono in fine equamente stritolate o brutalmente ridimensionate dalla ragion di Stato, che non vuole o forse non può fermarsi di fronte ad alcun ostacolo pur di realizzare le proprie esigenze in nome di un supremo interesse generale (che, naturalmente, è in larga misura un interesse quanto mai particolare, qual è quello del Potere). Anche travolgendo e deturpando esistenze affetti dignità.

     Ma c'è qualcosa che sopravvive agli affetti, ai sentimenti, alla vita fisica degli individui, che resiste al di là dello squallido e dell'effimero storicamente inerenti alla condizione umana. Nel romanzo non ci sono buoni e cattivi, onesti e disonesti, colpevoli e innocenti: tutti sono egualmente segnati, Mozart per prino (marito infedele, seduttore, giocatore, menefreghista, opportunista), dalle stigmate della negatività morale più invereconda. Secondo la penetrante osservazione di Bàrberi Squarotti, in Postfazione, il personaggio forse meno riprovevole del racconto - a parte la gentile e affettuosa sorella di Costanza, Sophie, che comunque è anche lei amante di Mozart - è proprio il cornuto involontario omicida, nella sua modesta dignità ferita di onesto piccolo borghese in certo senso meno peccatore e meno egoisticamente irrespondabile dell'"eroe" che ha ucciso, è quindi - paradossalmente - l'antieroe. Si diceva: c'è qualcosa che sopravvive allo squallido e all'effimero: ed è il messaggio, metafisico e intangibile, espresso dalla perenne e immacolata vitalità dell'arte e della bellezza. In questo caso, l'intera opera di Mozart (a prescindere dall'umana miseria del creatore), anche se ad essa, nella storia in questione, sembrano essere indifferenti tutti i personaggi - parenti, amici, allievi, colleghi, politici, ecc, - tesi unicamente a scorgerne i risvolti pratici, finanziari, di gloria, di prestigio, di interesse che possono trarne loro. Ed è un messaggio che traspare, sommesso ma deciso, da molte pagine del libro.

     Quella della radicale e forse, per misteriose ragioni, inevitabile e insanabile scissione tra arte e vita, in particolare tra povertà etica e "sociale" dell'artista in quanto uomo e assoluta magnificenza interiore e poetica della sua creazione, può essere una delle chiavi di lettura più sicure per Il caso Mozart. Ma non la sola. Sedotti da uno stile svelto ed elegante, icastico e fluente, non privo di una leggera e congrua patina arcaizzante, nonché spesso librato su un pertinente ritmo come di minuetto (specie apprezzabile nei dialoghi e tanto più sinuoso ed incalzante quanto più investe situazioni di per sé tragiche o sordide o violente), non avremo difficoltà a riscontrare, nell'intrigo "poliziesco", accanto a quello supremo e onnicomprensivo del contrasto arte-vita, altri canonici snodi bipolari come quelli di eros e thanatos, di volontà e destino, di sorriso e perfidia, per tacere quello, già anticipato, di apparenza radiosa ed ombrosa realtà di un Settecento assunto a paradigma del più vasto tempo umano, non migliore, non più felice, non più virtuoso.

     Se poi consideriamo le parole rivolte da Mozart morente ai famigliari, agli amici, ai colleghi, ai medici stessi e gli ultimi gesti e gli ultimi atti di lui; se sappiamo individuare il giusto accento delle esternazioni mozartiane sempre tentate dal gusto del gioco, dello scherno, dell'ironia, del paradosso anche nei momenti di suprema e irrimediabile tragicità: sarà arduo allora - estendendo lo sguardo anche agli altri personaggi tirati in ballo e all'intera casistica del racconto (senza sottovalutare l'apppasionata e fervida, ma eccessivamente moralistica cupa pessimistica lettura proposta in Postfazione da Bàrberi Squarotti) - soffocare la voce dell'antieroe della sveviana Coscienza di Zeno che, oltre cento e trent'anni dopo la morte di Wolferl, ci ricorda che la vita, anche nelle sue manifestazioni più tragiche e disperate, è soprattutto "originale". Non soltanto male, vizio, peccato - inevitabili - ma anche "originalità", vale a dire inesausta e inesauribile capacità di adattamento, di metamorfosi, di ricreazione.

     Il che spalanca infinite sorprese e prospettive sull'aldiquà e sull'aldilà, sull'esistenza e sul nulla, sull'apparente e sul reale, per cui in un gioco di quinte e di fondali sostituibili e ribaltabili senza posa (come quello attuato con calibrata e luccicante maestria dal nostro narratore) non si può escludere che le Cose siano effettivamente andate (e vadano) come le immaginano i romanzieri e che la Storia sia profondamente diversa da come la raccontano di storiografi.

                                                                                                                                                                                         Loris Maria MARCHETTI


Franco Pappalardo La Rosa, "Il caso Mozart", recensione di Piero Mioli su "Musica e Scuola" del 15.9.2009, A.XXIII, n. 15

E' un romanzo "Il caso Mozart" di Franco Pappalardo La Rosa(Gremese, 2009) che nel corso di oltre duecento pagine descrive le ultime ore di vita di Wolfgang Amadeus tenendo conto, anzi fidandosi assolutamente delle conclusioni raggiunte tempo fa da alcuni ricercatori non molto graditi al biografismo ufficiale. Che l'ancora giovane Mozart, cioè, morì di mortte violenta, ammazzato, proprio così, dal marito di un'allieva con la quale aveva una relazione (Franz Hofdemel lui, Magdalena lei). Bastonato senza pietà (ma anche senza una precisa volontà omicida) e scaraventato ai bordi di una strada, nottetempo, fu soccorso e riportato a casa ma inutilmente. Su pochi altri dati del genere l'autore ha ricamato una vicenda, una storia quasi in tempo reale di notevole suggestione: la famiglia, i conoscenti, gli allievi, i pezzi grossi della Vienna d'allora vi trovano posto in tutta calma, senza alcuna congestione nonostante la drammaticità del racconto e la sua indole addirittura poliziesca. Quando, per esempio, il povero Franz Xaver Sussmayr corre a teatro a cercare il dottor Closset, che venga subito dal morente, prima che dall'alto della scala del teatro compaia il dottore stesso compaiono il Kaiser Leopoldo con la Kaiserin Maria Luisa e man mano tutti i cortigiani, i collaboratori, i ministri e quant'altri personaggi, attraverso una descrizione viva, simpatica, quasi fotografica (nel senso migliore).
Chiaro e ordinato il racconto, la prosa limpida e scorrevole non manca di guizzi poetici: di uno che risponde lamentoso e svogliato, a un certo punto, si dice che "uggiolò"; e di un altro che fece più o meno il contrario, che "melodiò".

PIERO MIOLI

domenica 8 agosto 2010

"Il caso Mozart", l'avvincente romanzo di Franco Pappalardo La Rosa- Una descrizione fenomenologica del potere. Recensione di Pietro Flecchia su l'AVANTI! del 21 marzo 2009

Almeno una dozzina di città greche si contendevano, in "illo tempore", l'onore di aver dato i natali ad Omero. Ben più numerose, intorno a Salisburgo, passando per Praga e Vienna, sono oggi le città europee che si fregiano dell'aggettivo "mozartiana". Ognuna raccontando di soggiorni, concerti, partiture, per i quali, se non il più grande, di certo uno dei massimi geni musicali segnò, nell'eternità del tempo umano, per il suo divino transito e rese privilegiati nella geografia dello spirito, alcuni luoghi della geografia politica del continente.
Sono mitologie accessorie, eppure essenziali all'istruirsi e articolarsi in costume di ogni società, esserci entro un sistema di relazioni civili, come appunto immediatamente definisce l'ascolto di un'aria mozartiana, ancora quando tradotta nel ritmo di canzonetta, come nel Fred Buscaglione di "Guarda che luna". E anche la scrittura, e musicologica e d'invenzione, si è esercitata intorno alle vicende e creative ed esistenziali di tanto "divino artifex", fino a creare una regione letteraria mozartiana, dove ultimo giunto ad esercitare i propri talenti in re è Franco Pappalardo La Rosa ne "Il caso Mozart" (Edizioni Gremese, 220 pagine, 14 euro), mosso dalla suggestione di un teschio individuato, stando alla dicitura sul basamento, per quello del grande musicista. Un teschio recuperato, attraverso il becchino del cimitero di Vienna dov'era stato seppellito il maestro, da un musicologo; teschio perduto per quasi un secolo, e poi riemerso per certificare che l'uomo di quel teschio morì di morte violenta, a causa di una bastonata. Se quello sia davvero il teschio di Mozart, non è qui il luogo; soltanto ci premeva individuare ed esporre il dettaglio concreto che ha avviato la bella macchina narrativa che è "Il caso Mozart"; il dettaglio concreto, e controverso, dal quale muove un racconto che risponde ai due requisiti qualificanti un testo narrativo felice - per il lettore, va da sé -: una struttura ben congegnata, intrigante, cui corrisponde una scrittura diretta e piana. Infatti due togati critici letterari si sono fatti padrini dell'opera, tracciandone un sintetico giudizio critico laudativo: nella postfazione di Giorgio Bàarberi Squarotti e nella quarta di copertina di Stefano Giovanardi, e a tanto illustri laudatori aggiungere sarebbe ridondare; ecco perché qui vogliamo soltanto enucleare, in quanto ragione della forza della macchina narrativa, la descrizione fenomenologica del potere, "sub speciem" di potere imperiale asburgico, quale emerge per la meccanica del racconto, ad affermare con forza: lo Stato, quando si fonda sulla trascendenza, per deriva propria è costantemente costretto a riscrivere, o meglio a sovrascrivere, falsificandola, la realtà. Questo rende "Il caso Mozart" anche un acuto romanzo "politico", e tanto più riuscito in quanto solo a romanzo letto, rimeditandone la vicenda, se ne coglie la dimensione politica, espressa narrativamente per la mediazione della necessità del potere statale di porsi come forza a difesa del valore etico della propria società.
Nello specifico de "Il caso Mozart" la svolta del racconto nella direzione della critica del potere come macchina di falsificazione delle relazioni civili ha la sia radice nella decisione dell'imperatore di nominare, resasi vacante la carica, Mozart maestro di Cappella della Cattedrale. Nella corte una fazione aveva brigato per impedire questa elezione, accampando l'eterna questione "morale": Mozart aveva debiti, spia di una vita dissipata e libertina, che troverebbe clamorosa, universale conferma nella sua morte per la memorabile bastonatura di un marito "cornificato" dal compositore. A frequentargli la consorte, Mozart non ha saputo far di meglio che introdurre nella propria loggia massonica il "cornuto", approfittando delle assenze del marito per le riunioni di loggia per incontrarne la sposa infedele, ma a volte anche i "cornuti" fanno due più due. Il fatto è che se si sapesse che il maestro è stato ucciso da un marito geloso, e per di più funzionario imperiale, risulterebbero provate le giuste dicerie che sostenevano l'indegnità di Mozart al ruolo di maestro di cappella, ergo svergognata tutta quella consorteria che lo ha sostenuto e al cui vertice sta l'imperatore; a difesa del cui principio di infallibilità, due ministri tramano a trasformare la morte del musicista da truculento fatto di cronaca nera in decesso per malattia.
La riscrittura della morte di Mozart decisa dal potere e il meccanismo che determina, reggono la narrazione del romanzo di Pappalardo La Rosa, articolata intorno ai disegni: le trame di pubblica affermazione di un'idea morale convenuta entro e secondo i disegni etici della grande recita imperiale asburgica. Da questa falsificazione della realtà prende forma una galleria di caratteri, di personaggi ognuno con sue ombre e difese, una cattiva coscienza che diventa mezzo, leva per un ricatto reintegrativo nel buon ordine civile. La tragedia del moribondo e poi del defunto musico tende così a trasformarsi, ad assumere i tratti
di mozartiana commedia degli equivoci, percorsa da un ironico, sottile umorismo, se non si imponesse intanto la precipua questione dell'assassino: il geloso rabbioso, del quale la vedova del musicista reclama la condanna a morte. E malgrado abbia accolto con segreta soddisfazione la morte del marito, in ragione di una tresca che la donna progetta di trasformare in nuovo matrimonio.
Il potere aderisce alla sua richiesta, in quanto bisogna evitare che il geloso possa rivelare la vera ragione della morte del musicista. Da qui la decisione del potere politico di costringerlo a suicidarsi. In questo nodo tragico tra vicende private e la loro formalizzazione statale - nella deriva del potere politico, quando assume la morale e non il diritto come legittimazione dell'azione repressiva - sta la svolta etica, che connota la vicenda de "Il caso Mozart" come didascalica entro quella logica del fariseismo, al centro della denuncia evangelica. Dislocata storicamente in un altro tempo, nella narrazione della vicenda, intorno alla figura della morte del musicista si proietta, con ritmi di musica mozartiana, molto più che l'ombra della spiegazione delle ragioni inquietanti ed eterne che fabbricano vicende quali oggi in Italia quella delle staminali, o della vaticana critica
dell'uso dei condom in Africa, capitoli simmestrici di un eterno caso Mozart, tutti effetto della necessità del potere politico ci riscrivere la realtà, quando assume come criterio di legittimazione la trascendenza
e non la mediazione politica in forma di dibattito democratico Per questa intuizione, dalla forza che ne deriva alla bella macchina narrativa, "Il caso Mozart" è molto più che un elegante ritratto della Vienna tardo Settecentesca, sistema di relazioni mondane, macchina della festa, intorno al trono, entro un quadro variegato di umanità, ma dove sta in agguato, agìta da tensioni represse e invidie, una forza capace di ghermire e segnare del marchio della tragedia ogni vita, tradurre ogni innocenza naturale in colpa vergognosa da colpire
esemplarmente, ma più spesso annientare in oscuri meandri, perché non tutto quanto cade sotto l'artiglio del potere politico è pubblicamente da mostrare, da tradurre in esempio ammonitivo.
E' questo non dicibile che diventa la dimensione criminale segreta presente in ogni potere fondato sulla trascendenza. E la coscienza di questa natura doppia del potere, della dimensione falsificata connaturata al suo agire, è la vera orginalità, la forza e il primo motore immobile della felice novella mozartiana di Franco Pappalardo La Rosa.

PIERO FLECCHIA

giovedì 5 agosto 2010