sabato 6 dicembre 2014

Recensione (apparsa su L'Indice dei Libri del Mese, a XXVI, n.6, giugno 2009, p. 19) a Guido Ceronetti, Le Ballate dell'Angelo ferito, Il notes magico editore, Padova 2009.

     Suddivisa in due sezioni, la prima delle quali costituita da componimenti che il poeta ha avuto modo di utilizzare nel suo Teatro dei Sensibili e la seconda da testi inediti, la raccolta si presenta come la proiezione di un universo (talora fittamente nominalistico: "scale ascensori uffici / schermi tubi tartine"), le cui vicende, sceverate dalle elaborazioni del pensiero, si susseguono all'interno di flashes illuminanti, ciascuno, consecutivi frantumi d'orrore.
     E' l'orrore, in effetti, il mastice che lega i personaggi (dalla ragazza di Novi Ligure, sventratrice di madre e fratellino, al pugile di regime, che bestiali pugni ha dato "a poveracci perché rossi"; da Eluana Englaro, "priva di morte e orfana di vita", ai terroristi all'attacco delle Torri gemelle ecc.), gli eventi del libro, evocati con minuziosa precisione (la "macelleria della famiglia imperiale russa nella cantina di casa Ipatiev, o il bombardamento di Dresda nel '45, oppure il massacro di Beslan. dove perirono 330 persone di cui 186 bambini), e il loro effettivo essere vissuti ed essersi vanificati nella scena del mondo. Un mastice che rivela in trasparenza anche il cerimoniale con cui l'io, nell'atto del pensare-poetare (di formulare un giudizio sulla realtà), si autoannulla quale punto di riferimento del testo, proprio mentre il suo frenetico ragionare suscita un teatrino d'ombre --  Lee Osvald appostato per uccidere Kennedy; il carnefice di Trockij pronto a conficcare la piccozza sul cranio della sua vittima; il "Lupo Grigio" tra la folla, in attesa di sparare al papa benedicente... -- intese a rappresentare, tutte, l'assurdità di una condizione esistenziale assediata dall'ineludibile onnipresenza del male: da "La cosa forte come la morte".
     Sicché la storia, "sacro al dolore fiume", non può non configurarsi che come sforzo vano, perché eterno, di fuggire dall'assurdo e dal male, al cui confronto il bene rimane un perenne dover essere, che mai si tramuterà in essere.
     Appartengano a diavoli o a santi, le ombre ceronettiane stilizzano, comunque, le sensazioni transeunti d'effimero e di strazio, che l'io capta e trasfonde in versificazioni svariate nei metri e nei toni in relazione alla precarietà del destino dell'homo tragicus ("la carne aggrappata all'anima") e di ogni altra creatura ("Pena la bestia il sasso la foglia"). Anche se l'io protagonista del testo non sempre o non totalmente coincide con l'io del poeta, posto che l'Angelo Ferito non è, come sottolinea lo stesso Ceronetti, l'alter ego dell'autore, né uno dei suoi travestimenti, bensì la metafora liberatrice di un'immaginazione malinconica del tipo di quella sintetizzata dal distico ("Tutti gli alberi / sono Angeli Feriti") conclusivo della Nota preposta ai testi della racconta.
     In quest'ottica, il poeta riversa dolori, riflessioni, stupori e ubbie dell'Angelo nello schema (concepito, invero, in modo approssimativo) della ballata: dell'antica forma lirico-narrativa -- e normalmente intonata in pubblico -- dai cantastorie, in origine accompagnata non di rado da musica e da danza. Forma, sì, popolare, ma che qui, atipicità delle stanze a parte, non si nega al recupero della parola preziosa ("c'incuora", "oppressura", "strepere"), alle sonorità prodotte tanto dalla reiterazione di identici gruppi sillabici ("il vir che fummo è fatto immonda fame") quanto dall'omofonia delle rime ("Ora siamo al sicuro / di là dal muro"), né alle improvvise spezzature iperbatiche del ritmo ("E Don che ignoro / in quale termini mare") o alle riprese anaforiche adoperate a mo' di cantabile ritornello.

                                                                                                               Franco Pappalardo la Rosa

venerdì 5 dicembre 2014

Recensione (apparsa su L'Indice dei libri del mese", a. XXV, n. 2, febbraio 2008, p. 24) a John Taylor. Gli arazzi dell'Apocalisse, Quaderni di Hebenon, Burolo, 2007

     La poesia di John Taylor pare attingere la sua forza creativo-rappresentativa ed espressiva non nel reale in sé, bensì nella dimensione del sogno e, talora, dell'incubo. Di conseguenza, l'insistito barbaglio antilirico, lampeggiante tanto nella scrittura versica quanto in quella dei microracconti, alla perfezione si attaglia alla speciale luce che connota i testi: luce tipica di un io orfico, il quale riceve dal sogno ("Tentai, in questo sogno, di librarmi in alto dalla cittadella. / In alto. Sempre in alto! // Si possono trovare testimoni / dopo che la cittadella è crollata...") la percezione, sia pure attraversata da inquietanti interrogativi senza risposta, del senso dell'essere e del divino che ne promana. Fra il visivo e il visionario, questa di Taylor è una poesia che evoca e nomina tutto un complesso di oggetti, di paesaggi, di figure ecc., fortemente reali all'apparenza, spesso persino iper-reali. e anche una fitta trama di intuizioni, di sensazioni, di riflessioni, di quesiti, al cui marasma l'io poetante, non diversamente dal Verbo -- lo spirito di Dio che, all'apertura della Genesi, plana sul Thhù-vavohù, nome e immagine del Caos --, conferisce ordine e significanza.    

     Non a caso, il protagonista degli Arazzi dell'Apocalisse (libro che assembla testi poetici e in prosa che spaziano cronologicamente dagli anni settanta al presente) sembra ingaggiare una sfida con la parola e con le infinite possibilità che essa offre di rappresentare le idee, l'esistenza, le cose del mondo nel loro cangiante cromatismo, nel dinamismo dei loro movimenti, o nel silenzio delle loro perturbarti stasi. Sicché il processo nel quale si viene risucchiati è di evocazione-distruzione-rigenerazione all'interno di un racconto, non si rado in forma dialogica, intensamente affabulato. Ecco perché i testi, capaci come sono di suscitare una velata emozione estetica in grado di colmare l'angoscia del Vuoto, implicano una dichiarazione di giudizio sull'essere, espressa con l'essenzialità e la fulmineità dell'occhio che scruta (soprattutto dentro lo spazio coscienziale e subcoscienziale) e, con contestuale fulmineità, cattura e poeticamente rappresenta.

     In essi, insomma, l'io vive il sogno come zona di esplorazione delle matrici più segrete, ma anche più certe, dell'esistenza, e non come sterile veicolo di fuga e di alienazione. Altrimenti all'artifex, a colui che imita il Verbo mediante l'impiego della parola e riporta la parola stessa, nonostante il suo destino di caducità, al centro delle emozioni per dare un senso al mondo, preclusa sarebbe -- al pari dello scolaro. soffocato dal groviglio dei fili copiati sul foglio del proprio album dai disegni dell'arazzo di Angers -- la speranza di salvazione promessa dall'Apocalisse ("Oh, Signore, non mi suddividere ancora. Ora non sono che / un frammento del raggio"): un'Apocalisse avvenuta una volta per tutte, e tuttora in atto, con la morte e la resurrezione di Cristo. Come dimostra la più enigmatica delle figurazioni intessute fra il 1375 e il 1380 da Nicolas Bataille nell'arazzo d'Angers, nella quale Giovanni, rappresentato davanti a una garitta, vigila affinché il Caos non torni a prevalere.

                                                                                                      Franco Pappalardo La Rosa

Recensione (apparsa su L'Indice dei libri del mese, A.XXIV, n. 10, 2007, p. 19) a Storia di un corpo ( Manni, Lecce 2007) di Pier Mario Giovannone


     Di tre segmentati poemetti, che per argomento hanno il corpo, si compone questo libretto di versi di Pier Mario Giovannone: il corpo poeticamente indagato e rappresentato non solo come oggettivo riferimento della percezione identitaria ("spazio fisico e metafisico / del nostro vissuto"), bensì anche quale alterità con cui l'io debba misurarsi a ogni istante della propria esperienza vitale, per riconoscersi, per accettarsi e (junghianamente) individuarsi.
     Il corpo stilizzato nei versi non è, tuttavia, un mero luogo, uno sfondo; costituisce, piuttosto, un'occasione: lo stesso elemento scatenante della poesia. Focalizzi, infatti, il centro della continua perdita di sé, o si ponga alla stregua di enigmatica, antagonistica entità nello sdoppiamento, talora sino e oltre la soglia dell'alienazione, tra l'io conscio e la sua proiezione materiale, esso mai dismette la propria funzione di oggetto poetico teso a "comunicare", nel bagliore e nello scatto ellittico della parola, nella svagata trasparenza della frase antilirica, una transazione di senso verso le radicali unità di pensiero e stupore, di testo e immagine, di presenza e confronto tragico con la frontiera del nulla. Da tale specola, il corpo poetico rifiuta, nel reticolo versificatorio, d'atteggiarsi a simbolo. Poiché, per Giovannone, la vita non può essere trattenuta in un segno immobile, ma è sempre altrove. E' nel rapimento, nella fugacità, nella sensazione transeunte dell'effimero: nell'eco dell'invano (come attesta lo sconsolato bilancio in secca perdita del poemetto conclusivo).
     A contrastare la grevità insita all'idea di corpo, a deponderarla quasi, il poeta si avvale, in ogni caso, di un denso nominalismo e di uno stile fortemente accumulatorio dei nomina impiegati. Che, senza smarrire il loro esatto riferimento ai sottostanti rapporti oggettivi e coinvolti in cadenze metrico-ritmiche svariate e briose -- dal "cantabile" delle sfilze di senari-settenari e otto-novenari all'andamento litanioso-responsoriale, per esempio, di Per solista e responsorio --, coniugano le forme del linguaggio in un'espressione scorrevole, elegante, costantemente gnomica. Con un lieve effetto di giocoleria concettuale e verbale, connesso all'iterata e irregolare presenza delle rime ("corpo senz'anca / che claudica e arranca"; "corpo come prodotto / lato elevato al quadrato // alzato / bugnato"), degli accordi omofonici ("punti di appoggio alle sue fughe / ai suoi ritorni / alle sue stasi / basi / dei suoi balzi"), degli scarti sonori dei lapsus ("odora il padre e la madre"), del mélange degli identici gruppi sillabici (della loro inversione, anche, nello stesso periodo versico: "corpo puro corpo porco") e delle insistite riprese anaforiche ("corpo in affitto / corpo che cade a capofitto / corpo con fitte / corpo senza affetti / corpo da rigetto"). Il tutto passato al filtro di un'ilare, irridente-amara ironia, che agisce da generale attenuazione litotica.
                                   
                                                                       Franco Pappalardo La Rosa


giovedì 2 dicembre 2010

Franco Pappalardo La Rosa, recensione (pubblicata su Hebenon, nn. 5-6. aprile-novembre 2010) di BETELGEUSE, antologia poetica di ELPIDIO JENCO curata di Fabio Flego, Pezzini Editore, Viareggio 2009

     Poeta e traduttore, Elpidio Jenco nacque il 9 febbraio 1892 a Capodrise, in provincia di Salerno. Trasferitosi a Viareggio nel 1921, vi svolse un'intensa attività di operatore culturale. Vi diresse il locale ginnasio "Carducci" e, quando vi fu istituito, anche l'omonimo liceo, presso il quale insegnò a lungo storia dell'arte. Nel secondo dopoguerra, partecipò alla vita politica viareggina, prima come consigliere comunale eletto nel P.S.I. e poi come assessore alla pubblica istruzione. Fu fra gli artefici della rinascita del Premio Viareggio, della cui Giuria fece parte fino al '55. Con Capasso, Fiumi, Gerini, Marchi ed altri, firmò (nel '48) la Lettera aperta ai poeti italiani sul "realismo" nella lirica. Morì nella patria d'elezione il 30 marzo del 1959.
    
     Il nome e la vicenda creativa di Jenco godettero, finché il poeta fu in vita, d'una cospicua notorietà; dopo la sua morte, invece, rapidamente sprofondarono nel gorgo del silenzio e dell'oblio. Da cui tenta adesso un opportuno recupero quest'antologia: un'ampia scelta di testi poetici, tratti dalle sei raccolte jenchiane edite -- Poemi della Primalba (1919), Notturni romantici (1928), Acquemarine (1929), Cenere azzurra (1932), Essenze (1933) e La vigna rossa (1955) --, curata da Fabio Flego con attento e documentato acume.

     Fin dagli esordi, Jenco seppe conferire dignità poetica alla propria voce, impostandola (in prevalenza) sul respiro breve di un io che, sminuzzandosi e mimetizzandosi nel paesaggio e nelle cose, cercava di captare e stilizzare, per il tramite d'una parola snella, elegante e musicale-visiva, il senso d'ineffabile mistero promanante dalla spettacolo di bellezza offerto dal creato. Il debutto fu di marca dannunziana, ombrata, talora, da un velo di pascoliana malinconia; nondimeno, la vena inventiva del poeta -- pur nel progressivo arricchirsi dei temi (la natura, il sogno, l'amore, la morte, la solitudine, il brivido dell'infinito...) -- presto conseguì una propria cifra identificativa. Ciò avvenne dopo gli anni trascorsi a Napoli, dove Elpidio si laureò in lettere classiche e collaborò con "La Diana", rivista che aggregò molti giovani talenti (da Ungaretti a Onofri, da Ravegnani a Govoni, da De Pisis a Carrà, da Sbarbaro a Vigolo), già avviati ad imprimere le loro orme sulla cultura novecentesca.

     Fondamentali furono per lui l'amicizia con Harukichi Shimoi, italianista docente all'Istituto Orientale di Napoli, e l'incontro con la poesia giapponese contemporanea, specie con quella di Akiko Yosano, dei cui haiku sarà il maggior traduttore italiano. Non meno fondamentale fu la sua partecipazione al cenacolo, animato da Enrico Pea, che si riuniva nella piazza di Forte dei Marmi, "all'ombra del quarto platano del caffè Roma", per approfondire le questioni artistico-letterarie più avvertite del momento (in una foto d'epoca, sono riconoscibili tra gli altri, seduti con Pea e Jenco attorno ad un tavolo del "Roma", Rèpaci, Carrà, Montale, De Grada e Angioletti).

     Il contatto assiduo con quegli amici ne accostò l'invenzione lirica al nascente ermetismo. La parola "pura", di cui già autonomamente si nutrivano i suoi versi, si prosciugò via via perinde ac cadaver e diventò sempre più ellittica ("attuffo", "impaura", "dirocci", "nimbano"...), più analogico-sinestetica e simbolica ("e la sciarpa di spolvero di stelle", "un verderosa stellato di quarzo", "Ultimo, il tempo, / stenderà su pietre trite / il suo lembo di deserto"...), continuando a conservare integra, tuttavia, la lezione di trasparenza, di limpidezza e di concinnitas, appresa dal poeta con l'esperienza di studio e di traduzione degli haiku, come attestano numerose liriche di Essenze e di La vigna rossa.
  
     Ed anche quando la ferocia della guerra l'aprì ai valori della libertà, della giustizia, della lotta partigiana -- si veda la lirica dedicata al sacrificio della contadina uccisa dai nazisti, perché sorpresa a bilanciare sul capo "il canestro del pane, / da portare ai fratelli, / partigiani della patria in armi" --, la poesia jenchiana mai smarrì il suo nativo dono d'incantevoile grazia, d'essenzialità e di cristallino nitore, che la resero (e la rendono) un unicum nel panorama letterario del nostro Novecento.

                                                          Franco Pappalardo La Rosa  

lunedì 23 agosto 2010

Franco Pappalardo La Rosa, "Giorgio Luzzi, il caos e la forma", recensione di "Sciame di pietra" (Donzelli, 2009, pp. 118, eu. 14), apparsa su "Istmi", nn. 25-26, giugno 2010

   Anche nei testi poetici di questo Sciame di pietra,1 come in quelli delle precedenti raccolte di Giorgio Luzzi, Predario2 e Talia per pietà,3 il protagonista è un io (non lirico, anzi: decisamente antilirico) che, quando non si misuri con la Storia - e con i tranelli, le insidie, le obnubilazioni mentali e le inesorabili erosioni di essenza umana di cui vengono disseminati i suoi percorsi e le sue prospettive -, si propone alla stregua ora di interprete intransigente, ora di lucido testimone, degli sconquassi, delle tragedie, degli orrori, prodotti in serie da una società globalizzata, e delle connesse-avvertite sensazioni di coartazione delle volontà, di mercificazione dei corpi ("e il mondo è sempre un'armoniosa cura / di membra sfatte, di riordinati / crani e brandelli"4), delle coscienze e persino delle intelligenze individuali.

     Non a caso, gremendosi d'insepolti o dissepolti cadaveri,5 di ossa ripulite,6 di "tristi crani",7 di "scheletri sensati",8 di membra insanguinate, trapassate "da proiettili e mosche"9 et similia - il tutto inquadrato in uno scenario di "Sepolcrali città",10 di assedi, di "fortezze incenerite",11 di nuvole basse dalle quali "piove veleno",12 di "Pioggia e petrolio, incubi iridati",13 di "un sole storto",14 di morte già avvenuta o in atto ("si vedono spogliare cadaveri, difendere mura / bendare occhi, lacerare / camicie"15) -, lo sciame di pietra metaforizza il movimento franoso delle macerie, dei detriti, dei frantumi e delle polveri di un immane disastro: dell'eclissi per implosione di una civiltà, la nostra, con la sequela di incubi, d'angosce, di terrori che lo corredano ("E penso al mio terrore, a questi / miei versi che riverso / su un orizzonte luddita"16). Di cui la poesia di Luzzi fornisce una dolorante, puntuale rappresentazione, increspata dalla variatio dei molteplici registri tonali (dall'ironico giocoso17 al sarcastico,18 dal grottesco19 al paradossale,20 dal tragico21 al sublime malinconico22 o amaro23) proprî dell'ars rhetorica applicata al discorso inventivo-comunicativo.

     Si tratta di variatio dei registri tonali che visibilmente si esercita sulle forme del linguaggio, con il pregio, tra gli altri, di non deprivarle della consistenza dei contenuti rappresentati (poiché le res, inserite talora in vere e proprie elencazioni catalogali, intramano il reticolo linguistico della loro aguzza-materica nettezza di contorni24), non operando, in tal modo, alcuno svuotamento dei relativi sensi verbali. Sicché il procedimento inventivo, e i suoi esiti stilistici, mai trasmettono il sentimento di un'inappartenenza dell'io alla sostanza dell'universo stilizzato, ma, al contrario, ne delineano il pieno protagonismo. Che è, sì, spesso, un protagoniso un po' decentrato, ma non per questo meno umanamente compartecipe, meno immerso nel gorgo magmatico e infuocato (e bruciante) della vicenda - pertenga essa ad accadimenti storici oppure a fatti di cronaca personale o collettiva - che, di volta in volta, lo stesso io elabora e traduce in termini poetici. Da qui l'impressione, trapelante dal denso dettato versale, di una poesia di secondo grado: di una poesia, cioè, la cui scaturigine s'accentra su una forte emozione estetica, peraltro fulmineamente metaforizzata in giudizio critico, generata, oltre che da tensioni e scatti mentali-emozionali interiori, da congeniali stimoli esterni, culturali; aperta, comunque, ai soprassalti proditori della tenerezza e del cuore ("... è il mondo che ci passa vicino / come un camino acceso, un bambino / che dondoli l'umore aspro di canna"25).

     In simile ottica, i testi poetici di Sciame di pietra riservano uno spazio non piccolo ai tre principali tipi di predilezioni culturali, dai quali da sempre il fare inventivo luzziano attinge il suo più vigoroso nutrimento: la letteratura (i libri), la pittura e la musica. Nella raccolta, infatti, assai numerosi affiorano i richiami letterari espliciti o criptici (Il Capitale di Marx, Il Principe di Machiavelli, gli "omaggi" al Proust della Recherche e allo Shakespeare evocato in In partibus Hamleti e nei versi incipitali del quarto componimento della sezione Controsole carne,26 gli abbondanti eserghi, la quasi testuali citazione del tormentoso interrogativo leopardiano - "Questo / è il mondo?" - incastonata nel mezzo di Boul' Mich'); così come altrettanto numerose risultano essere i riferimenti alla pittura (di Tiepolo, Palma il Vecchio, Tiziano, Bosch, Goya, Matisse, Picasso, Kline, Hartung) e quelli alla musica (La messe des Pêcheurs di Gabriel Fauré, un Te Deum, un maestro dell'atonalità quale fu Anton von Webern, il "fandango", ricordato da Da Ponte nel suo libretto per Le nozze di Figaro, André Messager; e, poi, i Recitativi, le varie musiche per danza: "tip-tap o shimmy / pavana o satanassa, spirù, shake, ballo / liscio, gagliarda..."27). E ciò attesta come questa poesia fondi il suo discorso comunicativo su un canone d'interdisciplinarità, in cui entrano contestualmente in gioco, da un lato, la ricerca metaforica e il sottile filtro dell'ironia, alternati o frammisti ad una tensione etica drammatica, e, dall'altro, il calcolo ragionato della disposizione del linguaggio secondo uno schema strutturale e metrico teso a far emergere, insieme con il senso complessivo delle immagini, la loro implacabile evidenza, nel comune, ineludibile destino, coinvolgente l'io e ogni "cosa" del mondo, del Sein zum Tode: dell'essere per la morte.

     Ma la pittura, la musica, la letteratura altro non costituiscono che alcuni dei principali simboli dell'ingegno umano, riassuntivi del prezioso patrimonio di civiltà che l'io vede metaforicamente conservato in quei libri dei quali, con paralizzante terrore28 e a causa del perdurare nell'uomo della primitiva ferocia di homini lupus, si prefigura l'estinzione ("in faccia ai libri, al tramonto, senza un'idea / intrecciato, conserto, congelato, stretto / a un patrimonio estinto"29). Il che comporta l'urgenza, da parte di Luzzi, di ricondurre la poesia, in contrasto con le ricerche della Neoavanguardia30 in via programmatica finalizzate a distruggere il testo e i suoi significati, alla propria primaria possibilità di comunicare. Ecco perché, a differenza dello sperimentalismo neoavanguardistico, la stilizzazione di Sciame di pietra lascia sempre intravedere tanto lo svolgersi di uno sviluppo logico del senso dentro l'intramatura dei versi, quanto il rifiuto d'ogni eventuale condizionamento impostole dalla liricità della parola e della frase poetica, poiché essa sposta il linguaggio su un fronte di precipuo carattere narrativo, ove convergono figure della mente,31 immagini, intuizioni, schemi di rappresentazione, che fungono da organizzatori dell'esperienza conoscitiva.

     Semmai, a volte vi s'impone quell'impossibilità in sé di senso, già predicata dall'esistenzialismo, in cui la negazione, o, addirittura, la tentazione32 del silenzio ("l'amara libertà, / l'impeto di tacere"33), acquistano, antifrasticamente, valore di cosciente-residuale forma di resistenza, e quindi di strenua difesa, dell'umana dignità di continuo attentata da un vivere sociale, che ancora si fonda sul "lordo capitale", che produce e riversa nell'atmosfera tonnellate di mortifere micropolveri ("sgorga dalla nube piatta / green di catrame e cenere sospesa // di solfuri"34), che nasconde le "cronache di Gaza" e finge d'ignorare il perpetrarsi delle violenze, delle torture, delle stragi, delle "pioggerelle e risatine" scaricate dai caccia dei vari Mr. Olmert sugli inermi delle più disparate zone del pianeta.

     Nei testi di Sciame di pietra, insomma, c'è, dominante, il senso d'una natura vagheggiata nella sua, ormai impossibile, arcadia violata e orrendamente deturpata; c'è, ancora, quasi spasmodica, l'attesa (o, forse, la non del tutto dismessa speranza) di "qualcosa che ci porti / fuori da questa storia scritta";35 e c'è, soprattutto, la pietas nei confronti di un'umanità "disorientata", che stenta ogni giorno l'esistenza correndo, consapevole, verso il baratro del Nulla che è la morte. Sono questi, in stringata sintesi, i motivi che Luzzi, spesso con ilare disperazione (le sue versificazioni, per esempio, diventano "microcisti sintattiche, formicole peregrine"36), sa captare e potentemente stilizzare, grazie all'impiego di una scrittura poetica assai variata nei metri e nei ritmi, che non si vieta il recupero della parola anche preziosa, aulica, dotta,37 carica di suggestioni evocativo-rappresentative38 e di vis figurale,39 né rinuncia alle forme dialogate, alle rime, alle riprese anaforiche,40 ai giochi allitterativi41 o reiterativi (con incremento o decremento) di gruppi sillabici omofoni,42 adoperati, tutti, in direzione di una raffinatissima - e spaesante - costruzione delle immagini in funzione tonale.

                                                                                           Franco Pappalardo La Rosa

       NOTE

       1 Roma, Donzelli, 2009, pp. 118.
      2 Venezia, Marsilio, 1997.
      3 Milano, Scheiwiller, 2003.
      4 Cfr. 6 (cavallo), nella sequenza di Guernicana.
       5 "Corpi / ritornano a comparire tra il pietrame": Esprimono - si va.
       6 "ossa qui / compilate e serene, fuori orario, dopo / il lavoro e il pasto, ripulite, in ordine": L'ossa.
      7 Cfr., nella sezione Oiseau-Mort, "Il corpo, che molti vedrebbero felicemente trionfare".
      8 Totentanz. Si ponga pure attenzione al verso "Ha un filmato di scheletri la mente" (cfr. Dalmatica), che apre un significativo spiraglio sul muro delle ossessioni rappresentate dall'io.
      9 Dalmatica, cit.
    10 Ibidem.
    11 Ibidem.
    12 "Ho rivisto la poca ombra profonda", nella sezione Controsole carne.
    13 E' il penultimo verso della seconda strofe di E domani.
    14 Cfr. ivi, quarto verso della seconda strofe.
    15 Cfr. la quinta sequenza di Disastri. Nella sequenza successiva, il quadro tanatologico moltiplica ed accentua i suoi segni: "seppellire la carne, i monti / di corpi nudi, trovare / il tempo di interrare, nottetempo / scavare, cavare / togliere via le pietre più angolose / lasciare nicchie per le nuche...".
    16 Casa del terrore. Cfr. anche Notizie dallo sferisferio, Deposizione, Nome in pezzi e Basterra vide.
    17 Cfr. l'autoritratto abbozzato in Sogno del vecchio frescante.
    18 "Ma Lei, Mr. Olmert, / Lei è troppo vicino a noi, Lei ha / troppi completi nell'armadio, troppi sudici dollari / in banca / [...] e troppi / ha Lei piloti d'aria armati che tornano a sera / e baciano i bambini / e di giorno hanno scaricato pioggerelle e risatine / sul reddito irrisorio di tuguri palestini": Morietur
    19 "Al fondo / di una camera di tortura in disuso giocava, stridente rideva / un gruppo misto di canasta / con giarrettiere e bretelle": Notizie dallo sferisferio, cit.; "Quel cane che scoppiò dopo aver divorato una saponetta": Poesia dipinta alla maniera di Franz Kline.
    20 "come se dicessimo che questa è una pipa / o frasi come Aurora Aurorale o Pane Panico / necessarie a chi vede il corpo minacciosamente / avvicinarsi alle parole...": ibidem.
    21 "Fuggendo / noi li abbiamo sempre qui, prossimi, / quei nomi di un doppio dolore / i figli spariti e le madri argentine / che additano ancora il punto preciso dell'oceano / dove i figli furono pasto ai pesci, fasto / in un fast-food di generali di origine italiana": cfr. il componimento d'aperura della sezione Nome in pezzi, cit.
    22 "E il cuore / il grande ossessionato intravedeva / oltre il golfo nuove donne, nuovi modi / di ondeggiare e sorridere. / Ma questo / è ciò che non ho detto quarant'anni fa, quando avevamo / indulgenza e passione e il mondo / non era ancora un arido / sanguinante o incendiato / catalogo di zone": Il Tour entra in Rue Foch.
    23 "Ma quando siedi e guardi / con un numero stampato tra le ciglia e l'iride smarrita / e la provvista di carta quotidiana, quando siedi / con la tua razione di parole d'amore, / entra nel tuo scenario l'amara libertà, / l'impeto di tacere": sono i versi conclusivi del citato componimento d'apertura della sezione Nome in pezzi, cit.
    24 "ghiaia pietrisco sabbia humus terriccio / polvere": cfr. la sesta sequenza di Disastri, cit.
    25 Fistularia. Cfr. anche il componimento che principia con "Dal capolino delle susine. Là ti trovi. Tratti".
    26 "dormire, forse / morire".
    27 Le danze rovesciate.
    28 Com'è noto, Heidegger considera l'Angst, l'angoscia, uno stato d'animo ontologicamente rivelativo (perché, spaesandoci, ci fa esperire il Niente), non provocato da alcunché di preciso, e la distingue dalla paura (Furcht), che è - dice - sempre paura di qualcosa. Nella poesia di Luzzi, sintomaticamente compare (nel componimento che inizia con "C'era una sorta di catrame gassoso") il morfema Furcht.
     29 "in faccia ai libri, al tramonto, senza un'idea".
    30 Di cui, comunque, mantiene l'intarsio plurilinguistico.
     31 Anche corruschi guizzi di incubi: Cfr. Notizie dallo sferisferio, cit.
    32 E' chiaro che si tratta di una pura fictio.
    33 Cfr il primo componimento, cit., della sezione Nome in pezzi.
    34 Finis Asiae.
    35 Boulez di bosco.
    36 Casa del terrore, cit.
    37 Per esempio: "obliatori", "preclare", "manto", "vegliardi" "donneare", "racemo", "perigliosa", "piaggia", "ridda", "dipintore" "dòmini", "semprità", "macule", "frali", "bassure".
    38 "... Era dicembre alla sua fine, la luce / piombava fortissima, punitiva, sopra me, / rideva un vetro d'oro per l'anno congedato...": En calant de Cimietz.
    39 "Gridano / come vipere in parto le bandiere / dai tetti": secondo componimento di Finis Asiae, cit.; "Acciambellato / sull'anima cerbiatta": Erle; "Lei regge un complicato foulard che sembra volare via": Deposizione; "L'uomo si fa largo con le sue acciughe di Biscaglia / che luccicano al sole come morte nature": Pescatore basco 1937; "era stato l'occhio rosso del sigaro a spalancarsi nella notte": L'entomologo; "capelli mossi e bruni / che il vento maggese scuoteva": prima sequenza di Nome in pezzi, cit.; "Usava volgere sul cranio sudato e prelato / i pochi capelli di lato": quinta sequenza di Basterra vide, cit.
    40 "di rappresentare / di non parlare / di illuminare / di avvicinare...": settima sequenza di Guernicana, cit.; "sulla scala di legno / sulla scala di pietra": "E c'è ancora chi canta, poi si spoglia".
    41 "ridicoli ricordi": Gravius si congeda; "nel vino vivo": Heimkehr; "lastrici lasciati": Notizie dallo sferisferio, cit.;"fune ferrea": quinto componimento della sezione Controsole carne, cit.; "frenetico formicolare": sesto componimento della citata sezione Controsole carne; "Trillavano / trucioli di teologia": Basterra vide, cit.
    42 "uno spazio di barlumi e frantumi": Notizie dallo sferisferio, cit.; "tra lombo e spalla il lampo di un coltello": Le danze rovesciate, cit.; "a salve di sale salutata": Heimkher, cit.; "si roderà la roggia": E nella caligine dell'una, dal clamore; "caste in cataste": L'ossa, cit.; "Scavare, cavare": sesta sequenza di Disastri, cit.
 
 
                                                        



















venerdì 20 agosto 2010

Franco Pappalardo La Rosa, recensione di "Pronuncia d'inverno", poesie di Evelina De Signoribus (Canalini e Santoni, Ancona, 2009, pp.76, Eu. 12)), apparsa su "L'indice dei libri del mese", luglio-agosto 2010, p.20.

     Preceduti da una Nota di Enrico Capodaglio e ripartiti in quattro sezioni, i testi della silloge - poesie e brevi prose "metriche" - presentano un io intento a sceverare, con lucida acribia, il grumo di dolore che gli ha radicato dentro l'"innaturale maniera di sopravvivere" in una realtà raggelata. Si tratta di un io femmina, di una Elle, la cui scrittura, sintomaticamente, assume il corpo non solo come carne sensibile alle trafitture di quel grumo di dolore, ma anche come centro di controllo, da parte della stessa, del persistere della propria identità ("Mi chiedo se sono ancora io, / se ancora sono in possesso del mio corpo"),

     Per questo la protagonista della poesia di De Signoribus si autorappresenta nell'atto di vivere angoscianti situazioni beckettiane - fra stanze zeppe di oggetti, corridoi, pianerottoli, bui cunicoli -, nelle quali affiorano straniti lacerti di vita, echi di voci, "stracci di lingue clandestine", di rabbie, rancori, desideri, rimorsi, e dove ogni movimento le viene imperdito (si veda La preghiera). Oppure si mimetizza nelle enigmatiche creature, Elsa, Anna, Emma, le parlanti le "lingue clandestine", convocate sul proscenio del teatrino d'ombre animato dai testi, nella cui eterna vicenda di sogni infranti, di pena, di sopraffazione, di noia, di disamore, consumata nel chiuso di stanze-prigioni e osservata con sororale pietas, lei si proietta e si riconosce: "io contemplavo la ferita di Emma che Anna lasciava sanguinare".
 
     Benché vi compaia qualche consonanza di rime ("in un tracollo fitto e irto / che forse sarà descritto a pagina..."), non c'è musica né canto, in queste corrusche-aguzze, intense, scritture; c'è, invece, il basso continuo alimentato dai borborigmi di una Elle in sofferenza, ormai rassegnata a pronunciare smozzicate spoglie di parole (di cui si "sovviene il suono, non il senso") in un mondo dove "tutto quello che viene detto è irrilevante / e senza eco".

                                                                                            Franco Pappalardo La Rosa


martedì 17 agosto 2010

Dell'"altro', del 'diverso', in "LADYBOY" di Roberto Bertoldo. Recensione di Franco Pappalardo La Rosa

     Don Giuseppe è un prete, parroco di un paese di campagna. E' uno che si dà un gran da fare nella cura delle anime dei suoi parrocchiani. Oltre che nelle ordinarie incombenze del ministero sacerdotale, è impegnato in una miriade di altre attività, che riempiono l'horror vacui della sua giornata. Come, per esempio, tener d'occhio (e redimere) l'immigrato tunisino Hrabal, muratore di giorno e di notte spacciatore, che la moglie ha lasciato per convivere con un "infedele", oppure organizzare un'aula in parrocchia, dove insegnare i rudimenti di lingua italiana ai figli di chi, dalle più disparate zone del pianeta, la miseria e la disperazione catapultano anche in paese.

     L'uomo ha da poco superato i quarant'anni: un'età in cui si fanno i primi bilanci della propria vita. Bilanci che non devono essergli risultati positivi, se egli vive la maturità come una regressione: se si sente deluso dalla fede che, fin dall'infanzia, ne ha illuminato l'esistenza (dopo aver detto messa, non a caso riflette: "Andate in pace, che io resto qui con la faccia buona a combattere anche per voi. Nel nome del Signore! E quale pace è in grado di fornire il Signore che ha inventato le tombe e ci schiaffa dentro tutti i suoi figli?").
     La sua crisi esistenziale, che si sostanzia nella paura della morte, diventa ben presto anche spirituale. Talmente profonda da farlo dubitare persino della genuità della propria vocazione. ("Su di lui" - annota l'autore - "la morte aveva avuto il sopravvento subito: era divenuta una presenza asfissiante, con cui fare i conti per la salvezza di un'anima che non si era mai data la briga di ringraziare, di palesarsi. E se fosse stata fasulla la chiamata? Se avesse dedicato a Dio, sbagliando, la sua unica vita?"). Questa crisi si aggraverà, poi, dal momento in cui Liza, una giovanissima cinese da poco giunta in paese con la madre, inizierà a frequentare la multietnica aula dove lui dà lezioni.

     L'incontro con la ragazza, infatti, gli sconvolge l'esistenza. Dapprima sarà il brivido generato dall'incrociarsi d'uno sguardo, o da una carezza che produce un subbuglio nel cuore del prete (il quale confesserà: "Avevo nel petto una vergogna: la mia carezza. Non la carezza in sé, ma il suo effetto [...]. Fantasticavo. Mi rendevo conto che l'elemento più comune è la pelle, che la pelle ricopre i nostri corpi [...]. Non può che annidarsi in essa la voluttà. E la colpa"). In seguito, d'emozione in emozione, lo spazio che distanzia il corpo del prete da quello della cinesina si ridurrà ("Liza non dimostrava disgusto e neppure indifferenza. Si sfiorarono, si fecero ancora più stretti [...]. 'Mi fai dire messa questa sera?'. Liza lo guardava divertita. Don Giuseppe le lanciò un sorriso sofisticato e lei gli si riavvicinò e gli prese le mani"). Infine, tale spazio non potrà che annullarsi: "Era accaduto tutto rapidamente. Liza era venuta, decisa, si era abbandonata al suo petto. Lui le aveva carezzato la schiena e lei gli aveva dato le labbra".

     Fin qui, il romanzo di Roberto Bertoldo (Ladyboy, Milano, Mimesis, 2009, pp. 143, euro 14) sembra narrare la vicenda - magari un po' piccante, dato l'approcio seduttivo fra l'esotica lolita e il maturo prete - di un ordinario innamoramento. Ma è da qui che il dramma, peraltro già alluso nei capitoli d'avvio per sapienti-minime anticipazioni, subisce una brusca sterzata: sul letto dove si distendono per fare l'amore, Liza confessa all'innamorato di essere "diversa": di essere "femmina a metà"; e don Giuseppe, dopo un'istintiva reazione di sbigottimento ("Continuo ad accarezzarla, ma le mani sono passate subito al suo viso, sono di padre adesso, o forse hanno solo una pietà da prete"), si lascia andare fra le braccia della creatura che ama ("Mi sentivo poca cosa al suo cospetto. Che mi importava che non fosse donna del tutto? Era la mia salvezza. Io che avevo conosciuto tutte le imperfezioni dei maschi e delle femmine adesso potevo accogliere su di me, sulla mia imperfezione, la solitudine dell'anarchia sessuale").

      Seguono settimane, forse mesi, di sbornia passionale: l'uomo e la ragazza si allontanano dal paese, vanno a vivere in un bungalow sulla spiaggia, fanno vita libera: "Lontani dal paese, Liza e Giuseppe si sentivano come sdoganati. Non c'era differenza tra di loro e gli altri, tra il loro amore e i sentimenti altrui".  E non si chiedono quanto sarebbe durata: non se lo chiede Giuseppe, il quale vuole solamente, come egli afferma, vivere, né se lo chiede Liza, che, da parte sua, non desidera che essere amata senza essere giudicata. Anche se Giuseppe, più maturo, riflette: "No, Liza non sarebbe stata sempre felice con me. Io ero il suo medico, niente di più. Era affascinata dalla mia capacità di farla sentire normale e donna". Infatti, quando il loro ménage pare normalizzarsi (andando ad esaurirsi i risparmi dell'uomo, la coppia s'era fatta assumere come "tuttofare" dal proprietario dei bungalow), il sentimento della ragazza verso l'innamorato comincia a raffreddarsi e, nel giro di brevissimo tempo, si spegne.
     Per l'uomo è il tracollo. Torna al paese, preceduto dalla voce d'essere stato ammalato (ma i parrocchiani sapevano ch'era fuggito con una cinese transessuale), riprende ad officiare messa, a lavorare alacremente. La solitudine e la depressione, tuttavia, lo inducono a cercar conforto nell'alcol: sicché, a fatica, egli riesce a finire i suoi sermoni. E, quando il bere non gli basta più, gli viene in soccorso Hrabal con la droga. All'acme del suo abbrutimento, lascia l'abito talare, affitta una camera nel centro storico e ricomincia a dare lezioni private. Consumerà così gli ultimi scampoli d'esistenza (con la mente ossessionata dal ricordo di Lisa, che, intanto, si era "sistemata" con un coetaneo), fino all'epilogo, la cui scoperta non va sottratta all'interesse dei lettori.

     Argomento di scottante attualità, questo affrontato da Roberto Bertoldo in Ladyboy: un argomento che narrativamente rappresenta i problemi dell'altro e del diverso, da sempre esistenti, ma oggi resi più visibili e proiettati in primo piano dalla nostra civiltà globalizzata.
     Rispetto ai parrocchiani, ai frequentatori del bar, all'immigrato Hrabal e alla stessa Liza, altro e diverso è don Giuseppe, in quanto prete ("il prete non mira che al bene del prossimo; dunque lui non doveva ascoltare né i bisogni del proprio cuore né quelli del proprio corpo..."); rispetto agli abitanti del paese, al boss locale della droga e ai poliziotti, altro e diverso è Hrabal, in quanto immigrato, estraneo alla comunità nella quale vive ("Non sono un ospite, stronzi! Io ho le mani bucate dalla calce per voi"; "L'avevano infinocchiato, Righelli gli aveva costruito un cappio [...]. Serve un colpevole per il don? Eccolo: bello e confezionato!"); viceversa, rispetto a Hrabal, altri e diversi sono la gente del paese, gli italiani, l'Occidente ("Secondo Hrabal, l'Occidente aveva rovinato il cuore della moglie. Ricordava bene quel viaggio da topi. A portare la sua donna nelle grinfie degli infedeli"; "E cominciò a progettare una vendetta: si fece spacciatore. Si era sentito giustificato del farlo, perché gli italiani lo guardavano con fastidio"); infine, rispetto alla madre, agli abitanti del paese, a quanti ne conoscono la situazione sessuale e, in generale, alla restante umanità che la circonda, altra e diversa è Liza, simbolo del disordine, dell'anarchia sessuale ("Mia madre mi portò via dalla Cina presto, anche per il mercato che c'era per quelli come me, naturali o siliconati a bizzeffe in laboratorio"; "Fossi nata con le orecchie a sventola! Ero invece qualcosa di sconosciuto. In ogni caso, sola. Sola senza razza").

     In ultima analisi, il romanzo non narra che intersecate storie d'emarginazione e di solitudine. Emarginato in mezzo alla gente è, a ben riflettere, il prete, che vive in estrema-desolata solitudine prima la sua cirsi esistenziale e spirituale, poi la sua relazione sentimentale con la giovane transessuale e, per ultimo, il suo sprofondare nel gorgo della disperazione e dell'abbrutimento (lui, come si autocommisera, "povero bambino che mai nessuno aveva coccolato e che nessuna coccola di adulto avrebbe potuto soddisfare"). Ermarginato è Hrabal, in quanto immigrato, cioè sradicato, e di religione islamica, che subisce l'onta d'essere abbandonato dalla moglie per un "infedele" e che vive astiosamente la propria solitudine (ricordiamo: "Secondo Hrabal, l'Occidente aveva rovinato il cuore della moglie..."). Ancora più emarginata è Liza, col segreto che si porta addosso come un indelebile marchio e con l'angoscia del monstrum che l'attanaglia.

     In questo muro di solitudine, d'emarginazione e di disperazione (d'irrimediabile dolore, insomma), lo scrittore lascia aperto, comunque, uno spiraglio alla speranza. I cui segni si colgono - benché qua e là (all'apparenza) distrattamente disseminati -, nell'ostinata ricerca dell'incontro personale con l'altro, nel quale si riconosce la nascosta ferita del proprio soffrire, del proprio sentirsi emarginati, della propria annichilente solitudine. E' così che Hrabal avverte, nei confronti della comunità che lo ha accolto, quasi il rimorso di spacciare ("Prima o poi avrebbero capito che spacciava. Gli dispiaceva, tutto sommato, perché era stato accettato..."); è così che don Giuseppe può accogliere, e considerarla come la sua sola àncora di salvezza, "la solitudine dell'anarchia sessuale" di Liza; ed è così che la giovane trans potrà confessare: "Mi odiai fino a quando qualcuno cominciò ad amarmi. E lo cercai dovunque questo qualcuno. Che non tardò, con Giuseppe che mi ascoltava, e mi capiva. Non ero una bestia rara, per lui; ero una pecorella o, semplicemente, una ragazza".

     Un'ultima notazione: non c'è nulla, in Ladyboy, di pornografico, di morboso, di volgare. Tutto è narrato con estrema delicatezza, con discrezione, con il sottofondo del basso continuo di una soffusa-compartecipe pietas verso l'unicità dei destini d'ogni creatura. E tutto è sorretto - pregio non piccolo né di poco conto - da una scrittura spumeggiante, inventiva, dal periodare breve ma denso di linfe di pensiero, capace di scendere nel profondo delle psicologie dei personaggi e scandagliarle. Una scrittura, che sviluppa un magistrale mélange di discorso in terza e in prima persona e che, di conseguenza, sembra mettere in scena, contestualmente, il momento narrativo-rappresentativo e le psicologie, coscienza e inconscio, dei personaggi, con una sclatrita tecnica dei balzi (avanti e indietro) propri dell'impiego del flash-back, e con non rare, baluginanti, schegge liriche.

                                                                   Franco Pappalardo La Rosa