sabato 6 dicembre 2014

Recensione (apparsa su L'Indice dei Libri del Mese, a XXVI, n.6, giugno 2009, p. 19) a Guido Ceronetti, Le Ballate dell'Angelo ferito, Il notes magico editore, Padova 2009.

     Suddivisa in due sezioni, la prima delle quali costituita da componimenti che il poeta ha avuto modo di utilizzare nel suo Teatro dei Sensibili e la seconda da testi inediti, la raccolta si presenta come la proiezione di un universo (talora fittamente nominalistico: "scale ascensori uffici / schermi tubi tartine"), le cui vicende, sceverate dalle elaborazioni del pensiero, si susseguono all'interno di flashes illuminanti, ciascuno, consecutivi frantumi d'orrore.
     E' l'orrore, in effetti, il mastice che lega i personaggi (dalla ragazza di Novi Ligure, sventratrice di madre e fratellino, al pugile di regime, che bestiali pugni ha dato "a poveracci perché rossi"; da Eluana Englaro, "priva di morte e orfana di vita", ai terroristi all'attacco delle Torri gemelle ecc.), gli eventi del libro, evocati con minuziosa precisione (la "macelleria della famiglia imperiale russa nella cantina di casa Ipatiev, o il bombardamento di Dresda nel '45, oppure il massacro di Beslan. dove perirono 330 persone di cui 186 bambini), e il loro effettivo essere vissuti ed essersi vanificati nella scena del mondo. Un mastice che rivela in trasparenza anche il cerimoniale con cui l'io, nell'atto del pensare-poetare (di formulare un giudizio sulla realtà), si autoannulla quale punto di riferimento del testo, proprio mentre il suo frenetico ragionare suscita un teatrino d'ombre --  Lee Osvald appostato per uccidere Kennedy; il carnefice di Trockij pronto a conficcare la piccozza sul cranio della sua vittima; il "Lupo Grigio" tra la folla, in attesa di sparare al papa benedicente... -- intese a rappresentare, tutte, l'assurdità di una condizione esistenziale assediata dall'ineludibile onnipresenza del male: da "La cosa forte come la morte".
     Sicché la storia, "sacro al dolore fiume", non può non configurarsi che come sforzo vano, perché eterno, di fuggire dall'assurdo e dal male, al cui confronto il bene rimane un perenne dover essere, che mai si tramuterà in essere.
     Appartengano a diavoli o a santi, le ombre ceronettiane stilizzano, comunque, le sensazioni transeunti d'effimero e di strazio, che l'io capta e trasfonde in versificazioni svariate nei metri e nei toni in relazione alla precarietà del destino dell'homo tragicus ("la carne aggrappata all'anima") e di ogni altra creatura ("Pena la bestia il sasso la foglia"). Anche se l'io protagonista del testo non sempre o non totalmente coincide con l'io del poeta, posto che l'Angelo Ferito non è, come sottolinea lo stesso Ceronetti, l'alter ego dell'autore, né uno dei suoi travestimenti, bensì la metafora liberatrice di un'immaginazione malinconica del tipo di quella sintetizzata dal distico ("Tutti gli alberi / sono Angeli Feriti") conclusivo della Nota preposta ai testi della racconta.
     In quest'ottica, il poeta riversa dolori, riflessioni, stupori e ubbie dell'Angelo nello schema (concepito, invero, in modo approssimativo) della ballata: dell'antica forma lirico-narrativa -- e normalmente intonata in pubblico -- dai cantastorie, in origine accompagnata non di rado da musica e da danza. Forma, sì, popolare, ma che qui, atipicità delle stanze a parte, non si nega al recupero della parola preziosa ("c'incuora", "oppressura", "strepere"), alle sonorità prodotte tanto dalla reiterazione di identici gruppi sillabici ("il vir che fummo è fatto immonda fame") quanto dall'omofonia delle rime ("Ora siamo al sicuro / di là dal muro"), né alle improvvise spezzature iperbatiche del ritmo ("E Don che ignoro / in quale termini mare") o alle riprese anaforiche adoperate a mo' di cantabile ritornello.

                                                                                                               Franco Pappalardo la Rosa

venerdì 5 dicembre 2014

Recensione (apparsa su L'Indice dei libri del mese", a. XXV, n. 2, febbraio 2008, p. 24) a John Taylor. Gli arazzi dell'Apocalisse, Quaderni di Hebenon, Burolo, 2007

     La poesia di John Taylor pare attingere la sua forza creativo-rappresentativa ed espressiva non nel reale in sé, bensì nella dimensione del sogno e, talora, dell'incubo. Di conseguenza, l'insistito barbaglio antilirico, lampeggiante tanto nella scrittura versica quanto in quella dei microracconti, alla perfezione si attaglia alla speciale luce che connota i testi: luce tipica di un io orfico, il quale riceve dal sogno ("Tentai, in questo sogno, di librarmi in alto dalla cittadella. / In alto. Sempre in alto! // Si possono trovare testimoni / dopo che la cittadella è crollata...") la percezione, sia pure attraversata da inquietanti interrogativi senza risposta, del senso dell'essere e del divino che ne promana. Fra il visivo e il visionario, questa di Taylor è una poesia che evoca e nomina tutto un complesso di oggetti, di paesaggi, di figure ecc., fortemente reali all'apparenza, spesso persino iper-reali. e anche una fitta trama di intuizioni, di sensazioni, di riflessioni, di quesiti, al cui marasma l'io poetante, non diversamente dal Verbo -- lo spirito di Dio che, all'apertura della Genesi, plana sul Thhù-vavohù, nome e immagine del Caos --, conferisce ordine e significanza.    

     Non a caso, il protagonista degli Arazzi dell'Apocalisse (libro che assembla testi poetici e in prosa che spaziano cronologicamente dagli anni settanta al presente) sembra ingaggiare una sfida con la parola e con le infinite possibilità che essa offre di rappresentare le idee, l'esistenza, le cose del mondo nel loro cangiante cromatismo, nel dinamismo dei loro movimenti, o nel silenzio delle loro perturbarti stasi. Sicché il processo nel quale si viene risucchiati è di evocazione-distruzione-rigenerazione all'interno di un racconto, non si rado in forma dialogica, intensamente affabulato. Ecco perché i testi, capaci come sono di suscitare una velata emozione estetica in grado di colmare l'angoscia del Vuoto, implicano una dichiarazione di giudizio sull'essere, espressa con l'essenzialità e la fulmineità dell'occhio che scruta (soprattutto dentro lo spazio coscienziale e subcoscienziale) e, con contestuale fulmineità, cattura e poeticamente rappresenta.

     In essi, insomma, l'io vive il sogno come zona di esplorazione delle matrici più segrete, ma anche più certe, dell'esistenza, e non come sterile veicolo di fuga e di alienazione. Altrimenti all'artifex, a colui che imita il Verbo mediante l'impiego della parola e riporta la parola stessa, nonostante il suo destino di caducità, al centro delle emozioni per dare un senso al mondo, preclusa sarebbe -- al pari dello scolaro. soffocato dal groviglio dei fili copiati sul foglio del proprio album dai disegni dell'arazzo di Angers -- la speranza di salvazione promessa dall'Apocalisse ("Oh, Signore, non mi suddividere ancora. Ora non sono che / un frammento del raggio"): un'Apocalisse avvenuta una volta per tutte, e tuttora in atto, con la morte e la resurrezione di Cristo. Come dimostra la più enigmatica delle figurazioni intessute fra il 1375 e il 1380 da Nicolas Bataille nell'arazzo d'Angers, nella quale Giovanni, rappresentato davanti a una garitta, vigila affinché il Caos non torni a prevalere.

                                                                                                      Franco Pappalardo La Rosa

Recensione (apparsa su L'Indice dei libri del mese, A.XXIV, n. 10, 2007, p. 19) a Storia di un corpo ( Manni, Lecce 2007) di Pier Mario Giovannone


     Di tre segmentati poemetti, che per argomento hanno il corpo, si compone questo libretto di versi di Pier Mario Giovannone: il corpo poeticamente indagato e rappresentato non solo come oggettivo riferimento della percezione identitaria ("spazio fisico e metafisico / del nostro vissuto"), bensì anche quale alterità con cui l'io debba misurarsi a ogni istante della propria esperienza vitale, per riconoscersi, per accettarsi e (junghianamente) individuarsi.
     Il corpo stilizzato nei versi non è, tuttavia, un mero luogo, uno sfondo; costituisce, piuttosto, un'occasione: lo stesso elemento scatenante della poesia. Focalizzi, infatti, il centro della continua perdita di sé, o si ponga alla stregua di enigmatica, antagonistica entità nello sdoppiamento, talora sino e oltre la soglia dell'alienazione, tra l'io conscio e la sua proiezione materiale, esso mai dismette la propria funzione di oggetto poetico teso a "comunicare", nel bagliore e nello scatto ellittico della parola, nella svagata trasparenza della frase antilirica, una transazione di senso verso le radicali unità di pensiero e stupore, di testo e immagine, di presenza e confronto tragico con la frontiera del nulla. Da tale specola, il corpo poetico rifiuta, nel reticolo versificatorio, d'atteggiarsi a simbolo. Poiché, per Giovannone, la vita non può essere trattenuta in un segno immobile, ma è sempre altrove. E' nel rapimento, nella fugacità, nella sensazione transeunte dell'effimero: nell'eco dell'invano (come attesta lo sconsolato bilancio in secca perdita del poemetto conclusivo).
     A contrastare la grevità insita all'idea di corpo, a deponderarla quasi, il poeta si avvale, in ogni caso, di un denso nominalismo e di uno stile fortemente accumulatorio dei nomina impiegati. Che, senza smarrire il loro esatto riferimento ai sottostanti rapporti oggettivi e coinvolti in cadenze metrico-ritmiche svariate e briose -- dal "cantabile" delle sfilze di senari-settenari e otto-novenari all'andamento litanioso-responsoriale, per esempio, di Per solista e responsorio --, coniugano le forme del linguaggio in un'espressione scorrevole, elegante, costantemente gnomica. Con un lieve effetto di giocoleria concettuale e verbale, connesso all'iterata e irregolare presenza delle rime ("corpo senz'anca / che claudica e arranca"; "corpo come prodotto / lato elevato al quadrato // alzato / bugnato"), degli accordi omofonici ("punti di appoggio alle sue fughe / ai suoi ritorni / alle sue stasi / basi / dei suoi balzi"), degli scarti sonori dei lapsus ("odora il padre e la madre"), del mélange degli identici gruppi sillabici (della loro inversione, anche, nello stesso periodo versico: "corpo puro corpo porco") e delle insistite riprese anaforiche ("corpo in affitto / corpo che cade a capofitto / corpo con fitte / corpo senza affetti / corpo da rigetto"). Il tutto passato al filtro di un'ilare, irridente-amara ironia, che agisce da generale attenuazione litotica.
                                   
                                                                       Franco Pappalardo La Rosa