martedì 17 agosto 2010

Dell'"altro', del 'diverso', in "LADYBOY" di Roberto Bertoldo. Recensione di Franco Pappalardo La Rosa

     Don Giuseppe è un prete, parroco di un paese di campagna. E' uno che si dà un gran da fare nella cura delle anime dei suoi parrocchiani. Oltre che nelle ordinarie incombenze del ministero sacerdotale, è impegnato in una miriade di altre attività, che riempiono l'horror vacui della sua giornata. Come, per esempio, tener d'occhio (e redimere) l'immigrato tunisino Hrabal, muratore di giorno e di notte spacciatore, che la moglie ha lasciato per convivere con un "infedele", oppure organizzare un'aula in parrocchia, dove insegnare i rudimenti di lingua italiana ai figli di chi, dalle più disparate zone del pianeta, la miseria e la disperazione catapultano anche in paese.

     L'uomo ha da poco superato i quarant'anni: un'età in cui si fanno i primi bilanci della propria vita. Bilanci che non devono essergli risultati positivi, se egli vive la maturità come una regressione: se si sente deluso dalla fede che, fin dall'infanzia, ne ha illuminato l'esistenza (dopo aver detto messa, non a caso riflette: "Andate in pace, che io resto qui con la faccia buona a combattere anche per voi. Nel nome del Signore! E quale pace è in grado di fornire il Signore che ha inventato le tombe e ci schiaffa dentro tutti i suoi figli?").
     La sua crisi esistenziale, che si sostanzia nella paura della morte, diventa ben presto anche spirituale. Talmente profonda da farlo dubitare persino della genuità della propria vocazione. ("Su di lui" - annota l'autore - "la morte aveva avuto il sopravvento subito: era divenuta una presenza asfissiante, con cui fare i conti per la salvezza di un'anima che non si era mai data la briga di ringraziare, di palesarsi. E se fosse stata fasulla la chiamata? Se avesse dedicato a Dio, sbagliando, la sua unica vita?"). Questa crisi si aggraverà, poi, dal momento in cui Liza, una giovanissima cinese da poco giunta in paese con la madre, inizierà a frequentare la multietnica aula dove lui dà lezioni.

     L'incontro con la ragazza, infatti, gli sconvolge l'esistenza. Dapprima sarà il brivido generato dall'incrociarsi d'uno sguardo, o da una carezza che produce un subbuglio nel cuore del prete (il quale confesserà: "Avevo nel petto una vergogna: la mia carezza. Non la carezza in sé, ma il suo effetto [...]. Fantasticavo. Mi rendevo conto che l'elemento più comune è la pelle, che la pelle ricopre i nostri corpi [...]. Non può che annidarsi in essa la voluttà. E la colpa"). In seguito, d'emozione in emozione, lo spazio che distanzia il corpo del prete da quello della cinesina si ridurrà ("Liza non dimostrava disgusto e neppure indifferenza. Si sfiorarono, si fecero ancora più stretti [...]. 'Mi fai dire messa questa sera?'. Liza lo guardava divertita. Don Giuseppe le lanciò un sorriso sofisticato e lei gli si riavvicinò e gli prese le mani"). Infine, tale spazio non potrà che annullarsi: "Era accaduto tutto rapidamente. Liza era venuta, decisa, si era abbandonata al suo petto. Lui le aveva carezzato la schiena e lei gli aveva dato le labbra".

     Fin qui, il romanzo di Roberto Bertoldo (Ladyboy, Milano, Mimesis, 2009, pp. 143, euro 14) sembra narrare la vicenda - magari un po' piccante, dato l'approcio seduttivo fra l'esotica lolita e il maturo prete - di un ordinario innamoramento. Ma è da qui che il dramma, peraltro già alluso nei capitoli d'avvio per sapienti-minime anticipazioni, subisce una brusca sterzata: sul letto dove si distendono per fare l'amore, Liza confessa all'innamorato di essere "diversa": di essere "femmina a metà"; e don Giuseppe, dopo un'istintiva reazione di sbigottimento ("Continuo ad accarezzarla, ma le mani sono passate subito al suo viso, sono di padre adesso, o forse hanno solo una pietà da prete"), si lascia andare fra le braccia della creatura che ama ("Mi sentivo poca cosa al suo cospetto. Che mi importava che non fosse donna del tutto? Era la mia salvezza. Io che avevo conosciuto tutte le imperfezioni dei maschi e delle femmine adesso potevo accogliere su di me, sulla mia imperfezione, la solitudine dell'anarchia sessuale").

      Seguono settimane, forse mesi, di sbornia passionale: l'uomo e la ragazza si allontanano dal paese, vanno a vivere in un bungalow sulla spiaggia, fanno vita libera: "Lontani dal paese, Liza e Giuseppe si sentivano come sdoganati. Non c'era differenza tra di loro e gli altri, tra il loro amore e i sentimenti altrui".  E non si chiedono quanto sarebbe durata: non se lo chiede Giuseppe, il quale vuole solamente, come egli afferma, vivere, né se lo chiede Liza, che, da parte sua, non desidera che essere amata senza essere giudicata. Anche se Giuseppe, più maturo, riflette: "No, Liza non sarebbe stata sempre felice con me. Io ero il suo medico, niente di più. Era affascinata dalla mia capacità di farla sentire normale e donna". Infatti, quando il loro ménage pare normalizzarsi (andando ad esaurirsi i risparmi dell'uomo, la coppia s'era fatta assumere come "tuttofare" dal proprietario dei bungalow), il sentimento della ragazza verso l'innamorato comincia a raffreddarsi e, nel giro di brevissimo tempo, si spegne.
     Per l'uomo è il tracollo. Torna al paese, preceduto dalla voce d'essere stato ammalato (ma i parrocchiani sapevano ch'era fuggito con una cinese transessuale), riprende ad officiare messa, a lavorare alacremente. La solitudine e la depressione, tuttavia, lo inducono a cercar conforto nell'alcol: sicché, a fatica, egli riesce a finire i suoi sermoni. E, quando il bere non gli basta più, gli viene in soccorso Hrabal con la droga. All'acme del suo abbrutimento, lascia l'abito talare, affitta una camera nel centro storico e ricomincia a dare lezioni private. Consumerà così gli ultimi scampoli d'esistenza (con la mente ossessionata dal ricordo di Lisa, che, intanto, si era "sistemata" con un coetaneo), fino all'epilogo, la cui scoperta non va sottratta all'interesse dei lettori.

     Argomento di scottante attualità, questo affrontato da Roberto Bertoldo in Ladyboy: un argomento che narrativamente rappresenta i problemi dell'altro e del diverso, da sempre esistenti, ma oggi resi più visibili e proiettati in primo piano dalla nostra civiltà globalizzata.
     Rispetto ai parrocchiani, ai frequentatori del bar, all'immigrato Hrabal e alla stessa Liza, altro e diverso è don Giuseppe, in quanto prete ("il prete non mira che al bene del prossimo; dunque lui non doveva ascoltare né i bisogni del proprio cuore né quelli del proprio corpo..."); rispetto agli abitanti del paese, al boss locale della droga e ai poliziotti, altro e diverso è Hrabal, in quanto immigrato, estraneo alla comunità nella quale vive ("Non sono un ospite, stronzi! Io ho le mani bucate dalla calce per voi"; "L'avevano infinocchiato, Righelli gli aveva costruito un cappio [...]. Serve un colpevole per il don? Eccolo: bello e confezionato!"); viceversa, rispetto a Hrabal, altri e diversi sono la gente del paese, gli italiani, l'Occidente ("Secondo Hrabal, l'Occidente aveva rovinato il cuore della moglie. Ricordava bene quel viaggio da topi. A portare la sua donna nelle grinfie degli infedeli"; "E cominciò a progettare una vendetta: si fece spacciatore. Si era sentito giustificato del farlo, perché gli italiani lo guardavano con fastidio"); infine, rispetto alla madre, agli abitanti del paese, a quanti ne conoscono la situazione sessuale e, in generale, alla restante umanità che la circonda, altra e diversa è Liza, simbolo del disordine, dell'anarchia sessuale ("Mia madre mi portò via dalla Cina presto, anche per il mercato che c'era per quelli come me, naturali o siliconati a bizzeffe in laboratorio"; "Fossi nata con le orecchie a sventola! Ero invece qualcosa di sconosciuto. In ogni caso, sola. Sola senza razza").

     In ultima analisi, il romanzo non narra che intersecate storie d'emarginazione e di solitudine. Emarginato in mezzo alla gente è, a ben riflettere, il prete, che vive in estrema-desolata solitudine prima la sua cirsi esistenziale e spirituale, poi la sua relazione sentimentale con la giovane transessuale e, per ultimo, il suo sprofondare nel gorgo della disperazione e dell'abbrutimento (lui, come si autocommisera, "povero bambino che mai nessuno aveva coccolato e che nessuna coccola di adulto avrebbe potuto soddisfare"). Ermarginato è Hrabal, in quanto immigrato, cioè sradicato, e di religione islamica, che subisce l'onta d'essere abbandonato dalla moglie per un "infedele" e che vive astiosamente la propria solitudine (ricordiamo: "Secondo Hrabal, l'Occidente aveva rovinato il cuore della moglie..."). Ancora più emarginata è Liza, col segreto che si porta addosso come un indelebile marchio e con l'angoscia del monstrum che l'attanaglia.

     In questo muro di solitudine, d'emarginazione e di disperazione (d'irrimediabile dolore, insomma), lo scrittore lascia aperto, comunque, uno spiraglio alla speranza. I cui segni si colgono - benché qua e là (all'apparenza) distrattamente disseminati -, nell'ostinata ricerca dell'incontro personale con l'altro, nel quale si riconosce la nascosta ferita del proprio soffrire, del proprio sentirsi emarginati, della propria annichilente solitudine. E' così che Hrabal avverte, nei confronti della comunità che lo ha accolto, quasi il rimorso di spacciare ("Prima o poi avrebbero capito che spacciava. Gli dispiaceva, tutto sommato, perché era stato accettato..."); è così che don Giuseppe può accogliere, e considerarla come la sua sola àncora di salvezza, "la solitudine dell'anarchia sessuale" di Liza; ed è così che la giovane trans potrà confessare: "Mi odiai fino a quando qualcuno cominciò ad amarmi. E lo cercai dovunque questo qualcuno. Che non tardò, con Giuseppe che mi ascoltava, e mi capiva. Non ero una bestia rara, per lui; ero una pecorella o, semplicemente, una ragazza".

     Un'ultima notazione: non c'è nulla, in Ladyboy, di pornografico, di morboso, di volgare. Tutto è narrato con estrema delicatezza, con discrezione, con il sottofondo del basso continuo di una soffusa-compartecipe pietas verso l'unicità dei destini d'ogni creatura. E tutto è sorretto - pregio non piccolo né di poco conto - da una scrittura spumeggiante, inventiva, dal periodare breve ma denso di linfe di pensiero, capace di scendere nel profondo delle psicologie dei personaggi e scandagliarle. Una scrittura, che sviluppa un magistrale mélange di discorso in terza e in prima persona e che, di conseguenza, sembra mettere in scena, contestualmente, il momento narrativo-rappresentativo e le psicologie, coscienza e inconscio, dei personaggi, con una sclatrita tecnica dei balzi (avanti e indietro) propri dell'impiego del flash-back, e con non rare, baluginanti, schegge liriche.

                                                                   Franco Pappalardo La Rosa















 




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