lunedì 9 agosto 2010

Franco Pappalardo La Rosa, "Il caso Mozart"(Gremese Editore). Recensione di Loris M. Marchetti su "Nuova informazione bibliografica", 1/2010, gennaio-marzo 2010

     Mozart colpisce ancora. Mozart colpisce sempre. Colpisce - si intende - alla sua maniera, innocente e persuasiva, soave e squassante, angelica e demoniaca. Colpisce ancora, colpisce sempre, perché sembra ben lontana dall'esaurirsi l'onda lunga dei richiami, degli influssi, dei coinvolgimenti che le sirene della vita e dell'opera, spesso congiunte e alimentate da un pathos leggendario di perenne autocarica, da ormai oltre due secoli continuano ad inviare, oltre che agli addetti ai lavori (musicisti, musicologi, storici della musica e del teatro musicale - la cui operosità istituzionalmente non ha ragione di fermarsi) e ai melomani (il cui amore per i capolavori imperituri non ha motivo di estinguersi), anche ad artisti filosofi poeti romanzieri nei confronti dei quali il mito mozartiano agisce da inesauribile e inarrestabile fonte di ispirazione, di riflessione, di interpretazione, di identificazione persino: per lo più associato, e non sempre congruamente, a quello di Don Giovanni (figura non inventata dal Genio salisburghese, ma grazie a lui entrata nell'immortalità), oppure - con una relazione personale anche più stretta - al mistero supremo del Requiem incompiuto, la cui aura leggendaria si sposa ovviamente con l'ipersollecitato (forsanche in eccesso) mistero della morte del suo autore.

     Non sarà però fuori luogo, prima di soffermarci con qualche appunto di lettura su Il caso Mozart, ricordare che già nel racconto Passaggio notturno, nel volume dello stesso Pappalardo La Rosa, Angelo (Torino, Ananke, 1999), facemmo la conoscenza di Mozart in compagnia di Da Ponte, Salieri, Casanova, Cagliostro in una Vienna visionaria e spettrale, sottilmente demoniaca tra Faust e Don Giovanni, letterariamente un poco sospesa tra Poe e Buzzati. Se poi si aggiunge che nello stesso volume traviamo anche un racconto, Rondò, incentrato su un fantasmatico Carlo Goldoni cittadino particolarissimo di una Venezia stregata, potremo già segnare fin d'ora, anticipatamente, una prima e fondamentale acquisizione critica sul nostro romanzo, quella che vede il suo autore sì affascinato dal Settecento, ma proprio in virtù della duplicità, dell'ambiguità di questo secolo, di cui ama sondare con acuta sottigliezza, e ricreare narrativamente, il versante recondito nero sulfureo, non quello illuminato dal sorriso della Ragione e dell'Ottimismo, l'altro Settecento insomma, quello che sta dietro allo splendore e alla bellezza dei Lumi, che nasconde un'intelligenza inquietante e uno spirito tenebroso, una moralità sordida e bacata, un'umanità meschina e miserabile.

     In questo romanzo Pappalardo riprende il "suo" Mozart in una Vienna gelida e notturna per riconsegnarcelo al momento della morte, al punto non a caso più controverso e struggente della biografia del Maestro, intorno al quale sin dall'inizio si sono versati fiumi di inchiostro e altri, magari on line, se ne verseranno, con ogni probabilità mai abilitati a vergare la parola definitiva. Il narratore - è ovvio - non è uno storico, è un affabulatore, un inventore, ma si vale di un'accurata e selezionata documentazione storica (sagacemente incorporata nel testo) per ricostruire liberamente quella che potrebbe essere stata la vera causa della morte di Wolfgang, in modo tale da consentire di comprendere una serie di eventi succesivi assai oscuri e pressoché inesplicabili (il funerale dei poveri e in gran segreto, la sepoltura nella fossa comune con dispersione del cadavere, ecc.) sui quali da sempre ci si interroga senza pervenire a soluzione ultima ed univoca.

     La vicenda si sconfigura quindi come un trhiller "storico" - se così si può definire - la cui sostanza, la cui suspence, si concretizza tuttavia dopo la morte del musicista, che lo scrittore non esita ad attribuire a una causa che la storiografia più accreditata ha per lo più ritenuto inattendibile o comunque non decisiva, vale a dire quale conseguenza delle bastonate che un marito geloso (quasi certamente non a torto) avrebbe inferto in una buia e fredda notte di dicembre all'esuberante Wolferl, andando naturalmente al di là delle intenzioni. Ma siccome il bastonato e poi defunto è il Kammermusikus, il compositore della Camera Imperiale (oltre che gloria nazionale in ogni caso), l'involontario omicida un impiegato di Cancelleria presso il Real Tribunale di Vienna, quindi un funzionario dell'Impero, ed entrambi, come pure l'imperatore Leopoldo II e i principali Ministri di Stato, affiliati alla Massonaria, è intuibile che sta per scoppiare un caso clamoroso, uno scandalo inaudito: onde è tassativo che lo scandalo non scoppi e il "caso" sia messo a tacere prima di nascere.

     Ed è qui, allora, che scattano l'estro e la maestria del narratore nell'intrecciare in un componimento misto di storia e di invenzione (per dirla con il venerando Manzoni) il fili del vero e del verisimile per approdare ad un porto sinistro dove le sorti individuali di esseri noti od ignoti, di persone oscure o famose, vengono in fine equamente stritolate o brutalmente ridimensionate dalla ragion di Stato, che non vuole o forse non può fermarsi di fronte ad alcun ostacolo pur di realizzare le proprie esigenze in nome di un supremo interesse generale (che, naturalmente, è in larga misura un interesse quanto mai particolare, qual è quello del Potere). Anche travolgendo e deturpando esistenze affetti dignità.

     Ma c'è qualcosa che sopravvive agli affetti, ai sentimenti, alla vita fisica degli individui, che resiste al di là dello squallido e dell'effimero storicamente inerenti alla condizione umana. Nel romanzo non ci sono buoni e cattivi, onesti e disonesti, colpevoli e innocenti: tutti sono egualmente segnati, Mozart per prino (marito infedele, seduttore, giocatore, menefreghista, opportunista), dalle stigmate della negatività morale più invereconda. Secondo la penetrante osservazione di Bàrberi Squarotti, in Postfazione, il personaggio forse meno riprovevole del racconto - a parte la gentile e affettuosa sorella di Costanza, Sophie, che comunque è anche lei amante di Mozart - è proprio il cornuto involontario omicida, nella sua modesta dignità ferita di onesto piccolo borghese in certo senso meno peccatore e meno egoisticamente irrespondabile dell'"eroe" che ha ucciso, è quindi - paradossalmente - l'antieroe. Si diceva: c'è qualcosa che sopravvive allo squallido e all'effimero: ed è il messaggio, metafisico e intangibile, espresso dalla perenne e immacolata vitalità dell'arte e della bellezza. In questo caso, l'intera opera di Mozart (a prescindere dall'umana miseria del creatore), anche se ad essa, nella storia in questione, sembrano essere indifferenti tutti i personaggi - parenti, amici, allievi, colleghi, politici, ecc, - tesi unicamente a scorgerne i risvolti pratici, finanziari, di gloria, di prestigio, di interesse che possono trarne loro. Ed è un messaggio che traspare, sommesso ma deciso, da molte pagine del libro.

     Quella della radicale e forse, per misteriose ragioni, inevitabile e insanabile scissione tra arte e vita, in particolare tra povertà etica e "sociale" dell'artista in quanto uomo e assoluta magnificenza interiore e poetica della sua creazione, può essere una delle chiavi di lettura più sicure per Il caso Mozart. Ma non la sola. Sedotti da uno stile svelto ed elegante, icastico e fluente, non privo di una leggera e congrua patina arcaizzante, nonché spesso librato su un pertinente ritmo come di minuetto (specie apprezzabile nei dialoghi e tanto più sinuoso ed incalzante quanto più investe situazioni di per sé tragiche o sordide o violente), non avremo difficoltà a riscontrare, nell'intrigo "poliziesco", accanto a quello supremo e onnicomprensivo del contrasto arte-vita, altri canonici snodi bipolari come quelli di eros e thanatos, di volontà e destino, di sorriso e perfidia, per tacere quello, già anticipato, di apparenza radiosa ed ombrosa realtà di un Settecento assunto a paradigma del più vasto tempo umano, non migliore, non più felice, non più virtuoso.

     Se poi consideriamo le parole rivolte da Mozart morente ai famigliari, agli amici, ai colleghi, ai medici stessi e gli ultimi gesti e gli ultimi atti di lui; se sappiamo individuare il giusto accento delle esternazioni mozartiane sempre tentate dal gusto del gioco, dello scherno, dell'ironia, del paradosso anche nei momenti di suprema e irrimediabile tragicità: sarà arduo allora - estendendo lo sguardo anche agli altri personaggi tirati in ballo e all'intera casistica del racconto (senza sottovalutare l'apppasionata e fervida, ma eccessivamente moralistica cupa pessimistica lettura proposta in Postfazione da Bàrberi Squarotti) - soffocare la voce dell'antieroe della sveviana Coscienza di Zeno che, oltre cento e trent'anni dopo la morte di Wolferl, ci ricorda che la vita, anche nelle sue manifestazioni più tragiche e disperate, è soprattutto "originale". Non soltanto male, vizio, peccato - inevitabili - ma anche "originalità", vale a dire inesausta e inesauribile capacità di adattamento, di metamorfosi, di ricreazione.

     Il che spalanca infinite sorprese e prospettive sull'aldiquà e sull'aldilà, sull'esistenza e sul nulla, sull'apparente e sul reale, per cui in un gioco di quinte e di fondali sostituibili e ribaltabili senza posa (come quello attuato con calibrata e luccicante maestria dal nostro narratore) non si può escludere che le Cose siano effettivamente andate (e vadano) come le immaginano i romanzieri e che la Storia sia profondamente diversa da come la raccontano di storiografi.

                                                                                                                                                                                         Loris Maria MARCHETTI


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