venerdì 5 dicembre 2014

Recensione (apparsa su L'Indice dei libri del mese", a. XXV, n. 2, febbraio 2008, p. 24) a John Taylor. Gli arazzi dell'Apocalisse, Quaderni di Hebenon, Burolo, 2007

     La poesia di John Taylor pare attingere la sua forza creativo-rappresentativa ed espressiva non nel reale in sé, bensì nella dimensione del sogno e, talora, dell'incubo. Di conseguenza, l'insistito barbaglio antilirico, lampeggiante tanto nella scrittura versica quanto in quella dei microracconti, alla perfezione si attaglia alla speciale luce che connota i testi: luce tipica di un io orfico, il quale riceve dal sogno ("Tentai, in questo sogno, di librarmi in alto dalla cittadella. / In alto. Sempre in alto! // Si possono trovare testimoni / dopo che la cittadella è crollata...") la percezione, sia pure attraversata da inquietanti interrogativi senza risposta, del senso dell'essere e del divino che ne promana. Fra il visivo e il visionario, questa di Taylor è una poesia che evoca e nomina tutto un complesso di oggetti, di paesaggi, di figure ecc., fortemente reali all'apparenza, spesso persino iper-reali. e anche una fitta trama di intuizioni, di sensazioni, di riflessioni, di quesiti, al cui marasma l'io poetante, non diversamente dal Verbo -- lo spirito di Dio che, all'apertura della Genesi, plana sul Thhù-vavohù, nome e immagine del Caos --, conferisce ordine e significanza.    

     Non a caso, il protagonista degli Arazzi dell'Apocalisse (libro che assembla testi poetici e in prosa che spaziano cronologicamente dagli anni settanta al presente) sembra ingaggiare una sfida con la parola e con le infinite possibilità che essa offre di rappresentare le idee, l'esistenza, le cose del mondo nel loro cangiante cromatismo, nel dinamismo dei loro movimenti, o nel silenzio delle loro perturbarti stasi. Sicché il processo nel quale si viene risucchiati è di evocazione-distruzione-rigenerazione all'interno di un racconto, non si rado in forma dialogica, intensamente affabulato. Ecco perché i testi, capaci come sono di suscitare una velata emozione estetica in grado di colmare l'angoscia del Vuoto, implicano una dichiarazione di giudizio sull'essere, espressa con l'essenzialità e la fulmineità dell'occhio che scruta (soprattutto dentro lo spazio coscienziale e subcoscienziale) e, con contestuale fulmineità, cattura e poeticamente rappresenta.

     In essi, insomma, l'io vive il sogno come zona di esplorazione delle matrici più segrete, ma anche più certe, dell'esistenza, e non come sterile veicolo di fuga e di alienazione. Altrimenti all'artifex, a colui che imita il Verbo mediante l'impiego della parola e riporta la parola stessa, nonostante il suo destino di caducità, al centro delle emozioni per dare un senso al mondo, preclusa sarebbe -- al pari dello scolaro. soffocato dal groviglio dei fili copiati sul foglio del proprio album dai disegni dell'arazzo di Angers -- la speranza di salvazione promessa dall'Apocalisse ("Oh, Signore, non mi suddividere ancora. Ora non sono che / un frammento del raggio"): un'Apocalisse avvenuta una volta per tutte, e tuttora in atto, con la morte e la resurrezione di Cristo. Come dimostra la più enigmatica delle figurazioni intessute fra il 1375 e il 1380 da Nicolas Bataille nell'arazzo d'Angers, nella quale Giovanni, rappresentato davanti a una garitta, vigila affinché il Caos non torni a prevalere.

                                                                                                      Franco Pappalardo La Rosa

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