venerdì 5 dicembre 2014

Recensione (apparsa su L'Indice dei libri del mese, A.XXIV, n. 10, 2007, p. 19) a Storia di un corpo ( Manni, Lecce 2007) di Pier Mario Giovannone


     Di tre segmentati poemetti, che per argomento hanno il corpo, si compone questo libretto di versi di Pier Mario Giovannone: il corpo poeticamente indagato e rappresentato non solo come oggettivo riferimento della percezione identitaria ("spazio fisico e metafisico / del nostro vissuto"), bensì anche quale alterità con cui l'io debba misurarsi a ogni istante della propria esperienza vitale, per riconoscersi, per accettarsi e (junghianamente) individuarsi.
     Il corpo stilizzato nei versi non è, tuttavia, un mero luogo, uno sfondo; costituisce, piuttosto, un'occasione: lo stesso elemento scatenante della poesia. Focalizzi, infatti, il centro della continua perdita di sé, o si ponga alla stregua di enigmatica, antagonistica entità nello sdoppiamento, talora sino e oltre la soglia dell'alienazione, tra l'io conscio e la sua proiezione materiale, esso mai dismette la propria funzione di oggetto poetico teso a "comunicare", nel bagliore e nello scatto ellittico della parola, nella svagata trasparenza della frase antilirica, una transazione di senso verso le radicali unità di pensiero e stupore, di testo e immagine, di presenza e confronto tragico con la frontiera del nulla. Da tale specola, il corpo poetico rifiuta, nel reticolo versificatorio, d'atteggiarsi a simbolo. Poiché, per Giovannone, la vita non può essere trattenuta in un segno immobile, ma è sempre altrove. E' nel rapimento, nella fugacità, nella sensazione transeunte dell'effimero: nell'eco dell'invano (come attesta lo sconsolato bilancio in secca perdita del poemetto conclusivo).
     A contrastare la grevità insita all'idea di corpo, a deponderarla quasi, il poeta si avvale, in ogni caso, di un denso nominalismo e di uno stile fortemente accumulatorio dei nomina impiegati. Che, senza smarrire il loro esatto riferimento ai sottostanti rapporti oggettivi e coinvolti in cadenze metrico-ritmiche svariate e briose -- dal "cantabile" delle sfilze di senari-settenari e otto-novenari all'andamento litanioso-responsoriale, per esempio, di Per solista e responsorio --, coniugano le forme del linguaggio in un'espressione scorrevole, elegante, costantemente gnomica. Con un lieve effetto di giocoleria concettuale e verbale, connesso all'iterata e irregolare presenza delle rime ("corpo senz'anca / che claudica e arranca"; "corpo come prodotto / lato elevato al quadrato // alzato / bugnato"), degli accordi omofonici ("punti di appoggio alle sue fughe / ai suoi ritorni / alle sue stasi / basi / dei suoi balzi"), degli scarti sonori dei lapsus ("odora il padre e la madre"), del mélange degli identici gruppi sillabici (della loro inversione, anche, nello stesso periodo versico: "corpo puro corpo porco") e delle insistite riprese anaforiche ("corpo in affitto / corpo che cade a capofitto / corpo con fitte / corpo senza affetti / corpo da rigetto"). Il tutto passato al filtro di un'ilare, irridente-amara ironia, che agisce da generale attenuazione litotica.
                                   
                                                                       Franco Pappalardo La Rosa


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